Viaggio nel Nord Italia delle carceri minorili: tra disagio e speranza

“L’Istituto penale per i minorenni è una realtà che cambia come cambia la società”. Girolamo Monaco è il direttore del carcere di Treviso. Una vita passata nelle carceri, da poco più di un anno è alla guida dell’IPM di Treviso. Un Istituto adiacente a quello per adulti e tornato agibile dopo alcuni anni in cui è rimasto chiuso per ripristinare gli spazi distrutti da un incendio. “Il carcere è figlio di una società, è lo specchio di una società” continua Girolamo Monaco “È cambiata la cultura, quindi è cambiata la società e di conseguenza sono cambiati i reati. Ma soprattutto sono cambiate le modalità di agire i reati. Insomma, sono cambiati i giovani, è cambiata la tipologia di giovani, così come sono cambiati i reati”. Gli Istituti per minori del nord Italia vivono una situazione profondamente diversa rispetto a quelli del sud. Negli ultimi anni hanno visto affollarsi le celle di ragazzi molto differenti rispetto alla tipologia di fruitori delle carceri fino a quel momento. Non solo la provenienza sociale è cambiata, ma anche lo status sociale. Non più solo dalle periferie degradate, ma sempre di più dalla società che intendiamo come “di buona famiglia”. Le cronache raccontano quotidianamente di omicidi e aggressioni ad opera di minorenni. Non sono ragazzi legati a clan, o affiliati alla malavita organizzata come invece succede spesso al Sud. Qui si vive un fenomeno nuovo e ancora inesplorato. Qui il crimine è l’espressione di un disagio. Negli IPM che abbiamo visitato al Nord, abbiamo solo ragazzi che parlavano italiano. Quindi giovani integrati o in grado di integrarsi perfettamente con il tessuto sociale. In altre parole, figli della media borghesia, o di quella che si chiamava negli anni Settanta “classe operaia”. Per rendere ancora più chiaro il concetto, pochi con la necessità di procurarsi il cibo per sopravvivere. Alcuni IPM devono affrontare la gestione, per nulla semplice, dei minori non accompagnati. È il caso del Beccaria di Milano dove la stragrande maggioranza dei detenuti ha questa specificità, così come il Ferrante Aporti di Torino. Ma nonostante questo, l’evidenza di una società che cambia, è lampante. “Si nota” spiega Girolamo Monaco “un disagio sociale che non è dato soltanto dalla mancanza economica, per cui una volta c'erano i furti, le rapine. Non c’è più un disagio sociale nato nella difficoltà a gestire le tensioni o l'aggressività. Oggi sono aumentati i reati contro le persone, sono aumentate le violenze, i reati legati al cyberbullismo. Più in generale sono aumentate le tensioni sociali. Questi ragazzi sono figli di questa società che non sa gestire la sua aggressività”. Che cosa non capiscono gli adulti dei ragazzi e quindi non riescono ad aiutarli prima che commettano un reato, chiedo ad un ragazzo veneto che frequentava il liceo prima di arrivare in carcere. “Non capiscono” mi risponde lui “che c'è una parte di loro che non vogliono esternare. Ma che devono essere capaci di capire per evitare che facciano cavolate”. Perché tu non sei riuscito a fermarti? “Perché ero in una situazione in cui non pensavo di poterne parlare con qualcuno non pensavo di essere ascoltato”. Il vortice delle emozioni travolge, a volte, e non lascia scampo a questi ragazzi che decidono di farsi giustizia da soli, oppure sfondano quel muro del “legalmente consentito” senza nemmeno rendersene conto. “Il carcere per i minorenni” continua Girolamo Monaco “serve sicuramente al reo perché lo ferma rispetto a una caduta, ma serve anche alla società perché si deve interrogare sul fatto che è facile condannare o è facile dire è malato o è tossicodipendente. Ma quel giovane è figlio di questa società, è figlio di questa scuola, è figlio di queste famiglie che non si accorgono, che non ci accorgiamo, del malessere che cova dentro questi ragazzi”. La nostra società vive distrattamente, oppure è avvolta in un clima che non mette più al centro la relazione tra le persone. E di conseguenza non ci soffermiamo sulla necessità di riconoscimento che hanno questi ragazzi. “Io credo fortemente” racconta Girolamo Monaco “che questi ragazzi cercano una parola, cercano di essere riconosciuti come persone. Probabilmente non vengono riconosciuti dalle famiglie, non vengono riconosciuti dalle mamme. Noi abbiamo ragazzi che non hanno storia, ho ragazzi che sono figli di adozioni andate a male. A questi ragazzi senza storia il carcere dà la possibilità di ricostruire una storia, perché il carcere serve a fermarsi. Poi, sono cambiate le modalità dell’agire il reato. Non si agisce più per un bisogno economico assoluto. La violenza è un mancato riconoscimento: tu mi hai fatto un male, tu non mi hai riconosciuto, io reagisco nell'unico modo che so, con un coltello. Oggi i ragazzi girano tutti con i coltelli come una volta io camminavo con il portafogli o con la carta identità. Molti reati avvengono all'uscita della discoteca: perché hai guardato male la mia ragazza, mi hai sporcato le scarpe… In passato il reato nasceva da un bisogno: ho bisogno e quindi faccio un furto, faccio una rapina, entro in una banca. Ecco, adesso il reato si fa perché io devo imporre il mio riconoscimento”. L’Ipm di Torino è molto grande. È una vecchia fabbrica trasformata in un carcere minorile. I colori alle pareti cercano di rendere meno cupo il passare delle ore. Anche qui, come in tutti gli Istituti con forte presenza di stranieri, la gestione delle etnie è complicata. Necessitano spesso di spazi autonomi. Gli agenti, in borghese come in tutti gli Istituti minorili, raccontano di liti futili, a volte improvvise. Cresce però il numero di italiani o di immigrati di seconda generazione. C’è un ragazzo nella biblioteca che sfiora i 18 anni. La sua fidanzata è incinta e lui deve rimanere in carcere almeno un altro anno. Guarda distrattamente dei libri, è arrabbiato. Lo è da quando è arrivato qui, ci dicono gli educatori. Che cosa ti sta insegnando questa esperienza, gli chiedo. “Insegnarmi? non insegna niente. Perché impari qualcosa in carcere?”. Kaliff ci racconta della sua fidanzata, ci dice che il carcere non insegna nemmeno il rispetto delle regole. “Le regole le trovi anche fuori” ci dice “non solo in carcere. Ognuno ha le sue regole, io rispettavo le mie regole fuori”. Le tue regole non erano le regole della comunità nella quale vivevi? “No “ E perché non hai rispettato le regole che rispettiamo tutti? “C'erano tante cose che mi mancavano”, ci risponde. “Però il carcere è duro per i minorenni, è davvero duro per i ragazzi. La cosa più difficile è sopportare che sei senza la famiglia. Mi manca tutto: il profumo di mia madre, abbracciare i miei fratelli, mio padre… Passare il tempo con loro. Ora il mio sogno è avere abbastanza denaro da mantenere tutta la mia famiglia e abbastanza denaro per donare ad altre persone che erano nella mia stessa situazione”. Kaliff è in carcere per un reato legato a una violenza contro la persona. Ci dice che non sa perché l’ha commesso, ci dice che non aveva altra soluzione. Ma non ci spiega, o non vuole farlo, il perché. Si immagina fra 10 anni con una famiglia, dei figli e un lavoro onesto. Durante questo viaggio negli IPM italiani abbiamo incontrato molti ragazzi, più di trenta. Tutti ci hanno raccontato la loro storia. Sono sempre vite piene di dolore, da nord a sud. Ma ciò che emerge chiaramente dai loro racconti, è che i ragazzi del Nord vedono la luce in fondo al tunnel. Spesso non accettano la pena che gli è stata data, ma ammettono di aver commesso un errore. Sanno che il percorso per tornare ad una vita libera è lungo e faticoso, e hanno la speranza di poterlo fare. Chi ha commesso omicidi o aggressioni violente ci racconta di non essersi reso conto di aver superato il limite e soprattutto di non aver mai pensato alle conseguenze. Ora quelle conseguenze sono scritte nero su bianco sulle sentenze, gli avvocati spiegano loro che cosa succederà passo dopo passo. La disperazione lascia spazio, lentamente, alla ripresa in mano della loro vita. C’è chi continua gli studi, chi li inizia, chi chiede di imparare un lavoro. Questo al Nord. Al Sud invece, è un’altra storia. La racconteremo nella prossima e ultima puntata di questa inchiesta. Mentre siamo in visita all’Ipm di Treviso arriva la notizia di un nuovo ragazzo che sta per arrivare. I posti sono finiti. Le guardie attrezzano una brandina nella stanza dei ragazzi italiani. Significa che è un ragazzo del posto. Questa è la quotidianità. Come se ne esce? Chiediamo al direttore di Treviso “Non lo so se ne esce” ci dice Girolamo Monaco “Innanzitutto ponendosi e non delegando il problema. Non facendo come facciamo sempre: il problema non è mio. È della porta accanto, è del vicino. Il problema non è mio, ma è del malato, del tossico, dello straniero. Io non ne ho minori stranieri in questo Istituto. Solo uno su 20 detenuti. Il problema si risolve riflettendo sul fatto che è la società che non sta funzionando. Non sta funzionando la scuola, non stanno funzionando le piazze, non sta funzionando la Chiesa, non sta funzionando lo sport, non stanno funzionando i luoghi di aggregazione. Allora il carcere che cosa diventa? Diventa il contenitore di tutto questo malessere. Il carcere serve a ridare la possibilità di riscrivere la storia. La speranza è, come io dico ai ragazzi, una casa che va costruita mattone dopo mattone. Il carcere è un posto dove si parla di libertà, ma la libertà non è un regalo, la libertà si conquista. La libertà è una scelta. La libertà non è fare quello che io voglio, ma è fare quello che io scelgo di fare”.