"Sono dovuta andare via per abortire", la storia di Giulia
Cronaca ©GettyMancanza di informazioni, medici poco preparati, obiettori di coscienza, stigma sociale e limiti stringenti sono tra i motivi che spesso spingono le donne ad andare fuori dai confini nazionali per vedere riconosciuta la propria scelta di interrompere la gravidanza
“Per convincermi a tenere il bambino mi ha fatto sentire il battito. Mi ha fatto vedere tutti gli organi, mi ha detto che era un maschietto, mi ha chiesto come lo volevo chiamare”. Era il 2022 quando Giulia, poco più che vent’enne e proveniente da un piccolo paese della Toscana, scoprì di essere incinta. “Non lo sapevo. Il mio medico mi aveva detto che i ritardi potevano essere determinati dal vaccino”. È stato il suo ginecologo, obiettore, a confermare la gravidanza e a cercare di convincerla a portarla a termine.
“Sono stata male, sono stata veramente male in quei momenti. Non sapevo neanche cosa significasse obiettore, poi l’ho capito a mie spese”. La giovane ha quindi chiesto aiuto al medico di base. “Mi ha risposto solo ‘Io non ho mai avuto richieste di aiuto per abortire’”. Il tempo è passato e il termine dei 90 giorni entro i quali, per legge, è possibile ricorrere all’interruzione di gravidanza per motivi legati alla scelta o alla salute della donna, è scaduto. Il panico in Giulia è aumentato sempre di più.
Il viaggio verso la Spagna
“Non riuscivo a trovare informazioni su Internet. Ho chiamato [cliniche] in Svizzera, a Londra. Ho chiamato anche in Olanda, sono stati disponibili, però io avevo bisogno di una lingua che fosse più facile da capire e da parlare e poi sono entrata in questo gruppo Facebook dove, proprio per caso, ho trovato la fortuna”.
Tra le donne che ha incontrato sui social, Giulia trova una ragazza che prima di lei era andata in Spagna, dove i termini per interrompere volontariamente la gravidanza sono più ampi, arrivando fino a 22 settimane. “Ho deciso quindi di prendere appuntamento con una clinica di Barcellona. Ho speso 1200 euro senza chiedere niente a nessuno. Poi ho preso il volo per essere lì un giorno prima dell’intervento. Ero così disperata che, proprio io che ho paura di volare, speravo che l’aereo cadesse”.
leggi anche
Aborto, dottoressa Canitano: "Nostre vite valgono più degli embrioni"
Il conforto di uno sguardo
Arrivata in Spagna, la giovane si è sentita per la prima volta accolta, capita, vista. “Ricordo che c’era una pubblicità sull’aborto e la contraccezione. In Italia non l’avevo mai visto, non è giusto che nel nostro Paese non siamo tutelate”.
Pur non capendo bene la lingua che parlavano nell’ambulatorio, con lo sguardo la ragazza ha compreso che c’erano tante altre donne come lei, lì per lo stesso motivo e, finalmente, non si è sentita più sola.
“Ero in ansia - racconta ricordando gli ultimi istanti prima dell’intervento -, cercavo di capire cosa facessero le infermiere. Ogni tanto passavano a chiedermi come stavo, mi davano quel supporto che mi mancava, non sono stata giudicata. Intorno alle cinque e mezza mi hanno presentato il chirurgo e l'anestesista, mi hanno fatto spogliare e messo una mascherina. Quando mi sono risvegliata, era tutto finito”.
Giulia oggi aiuta altre donne in difficoltà davanti a una gravidanza. “In Italia abbiamo un problema di mancanza di informazione, se io avessi saputo prima che potevo rientrare nelle settimane previste per legge, se avessi potuto contare su qualcuno, sarebbe stata sicuramente un’esperienza diversa”.
L’Italia tra leggi e barriere
La ricerca European Abortion Access Project ha mappato i percorsi delle donne che decidono di lasciare il proprio Paese per abortire, rilevando che le italiane tendono a dirigersi soprattutto verso Regno Unito e Spagna dove l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è consentita, rispettivamente, fino a 24 settimane e fino a 22 settimane.
Nel nostro Paese, la legge numero 194 del 22 maggio 1978 stabilisce che l'IVG è legale entro i primi 90 giorni reali di gravidanza per motivi legati alla scelta o alla salute della donna; superato questo termine, si può ricorrere solo all'aborto terapeutico previsto in caso di pericolo la vita della donna oppure per rilevanti anomalie/malformazioni fetali.
Nella maggior parte dei casi, le persone si spostano a causa del superamento del limite del primo trimestre.
Il fatto che alcune donne vengano a conoscenza della gravidanza solo in stato già avanzato può essere l'esito di diversi fattori. Secondo la dottoressa Silvia de Zordo, principale autrice della ricerca, ci sono ragioni fisiologiche come mestruazioni irregolari o l’assenza di chiari sintomi di gravidanza. Anche lo stress può influire. “Altre volte [accade] perché il medico di base non è stato in grado di aiutare la donna a individuare i segni della gravidanza e ha contribuito a generare confusione”.
Secondo i ricercatori, stigma sociale, scarso accesso a informazioni chiare e tempestive, la presenza elevata di obiettori di coscienza tra ginecologi (64,6%), anestesisti (44,6%) e personale non medico (36,2%), l’attesa obbligatoria prima di accedere all’IVG (7 giorni dal rilascio del documento da parte del medico nel caso in cui non sia considerato un intervento urgente), sono i principali ostacoli con cui le donne si devono confrontare in Italia.
“I buchi della 194 sono riempiti dalla società civile”
Nel Paese mancano anche dati completi e aggiornati sui servizi offerti dagli ospedali, per questo l’associazione pro-scelta Laiga 194 ha realizzato una mappa delle strutture sanitarie in cui si effettua l’interruzione di gravidanza.
“Ad oggi non è stato costruito un chiaro ed esaustivo sistema informativo” afferma l'ostetrica e vicepresidente Giorgia Alazraki. A questo va aggiunta la scarsa o assente educazione sessuale e affettiva nelle scuole.
“Si generano opacità e confusione. Per aiutare le donne abbiamo realizzato anche la guida ‘IVG senza ma’ con indicazioni chiare per l'accesso all’interruzione di gravidanza”.
A 46 anni dall’approvazione della legge 194, è difficile stabilire quanto il diritto a un aborto libero sia in concreto garantito. In media a livello nazionale più di 6 ginecologi su 10 sono obiettori, con picchi di oltre l’80% nella provincia autonoma di Bolzano (84,5%), in Abruzzo (82,8%) e in Molise (82,8%).
“Noi abbiamo chiesto diverse volte di istituire una lista di chi rifiuta di effettuare l’interruzione di gravidanza, invece di mappare i medici che quel servizio alle donne lo offrono” continua Alazraki. Come Laiga, sono molte le associazioni di volontariato che cercano di supportare le donne in difficoltà.
“Sono 46 anni che tutti i buchi vengono riempiti dalla società civile. Davanti a questo, bisogna porsi una domanda politica circa l’applicazione reale della legge 194” conclude la dottoressa Alazraki.