Bambini e adulti stritolati da un mondo senza domande
CronacaBasta prestare un minimo di attenzione a ciò che accade intorno a noi, dove le risposte battono nettamente le domande eppure replichiamo, con sorprendente fedeltà, sempre gli stessi errori. Se ciascuno la smettesse di fornire risposte a getto continuo, a cominciare dagli specialisti, avremmo bambini contenti di stare al mondo
Ricevo, inatteso, un sms da parte di un bravo educatore, molto impegnato con le giovani generazioni nella sua città. “Caro Domenico, ieri sono andato ad ascoltare un tuo celebre collega, venuto qui in città a parlare di ragazzi. Non mi è piaciuto, credo abbia passato tutto il tempo a sparare addosso ai genitori, manifestando una totale mancanza di compassione per quelle persone, uscite dall’auditorium piegate in due. Sembrava avesse tutte le risposte che servono al mondo, ma due giorni dopo, su un quotidiano nazionale, mi è capitato di leggere un’intervista dove lui stesso ammetteva di essere stato un padre non esemplare e spesso assente”.
Molte risposte, forse arbitrarie, nessuna domanda, soprattutto sulle proprie teorie, spesso messe insieme quando non c’era neppure l’elettricità
Due genitori, separati da qualche mese, vivono una perenne conflittualità, rispecchiata nelle inquietudini, esistenziali, quindi scolastiche, del loro bambino, nove anni. Le insegnanti, a capofitto, parlano di disturbo dell’apprendimento e chiedono che venga posto in carico a una struttura che si occupa di tali problemi.
Il padre che, a differenza delle insegnanti, conosce l’origine dei tormenti del figlio cerca di convincere l’ex moglie a prendere consulto da un professionista. Una delle rare occasioni in cui sono riusciti a scegliere qualcosa di comune accordo. Emerge che i disturbi sono esplosi in concomitanza con l’inizio della conflittualità tra genitori, che occorre mettere sotto controllo proprio quella, se si vuole aiutare il bambino. Forse non c’era bisogno dello psicologo per arrivarci.
Guardare in faccia la realtà è fastidioso
Ma le insegnanti non cedono. Il bambino “è affetto da un disturbo dell’apprendimento” e deve essere condotto in un centro specializzato, anche perché loro non si vogliono “occupare della coppia, ma solo del bambino”!
Dopo un mese, il padre torna con la relazione, una quindicina di pagine, prodotta dalla struttura indicata dalle insegnanti che, per un costo importante, presenta l’esito di alcuni test specifici che dovrebbero spiegare i limiti del bambino.
Una fotografia scattata da una barca col mare in tempesta. “Mossa”.
Inoltre, non si legge una sola parola sulla grave conflittualità tra genitori, come se si trattasse di un particolare insignificante. Insomma, Giulio Cesare è morto perché non indossava la canottiera. Pochi mesi dopo, per fortuna, il giudice disporrà l’obbligo per mamma e papà di un percorso di sostegno alla genitorialità. Ma forse non c’era bisogno neppure del giudice. Bastava porsi un paio di domande, ma guardare in faccia la realtà è fastidioso. Richiede lavoro, meglio delegare. Il bambino continuerà stare male, ma in fondo è stata data una risposta, molti in questo caso pensano di averne prodotte, ma le risposte possono trafiggere più di mille aghi, soprattutto se partono dalle proprie fissazioni o comodità.
L'inflazione delle risposte è sempre sospetta
Quando in un sistema sociale qualsiasi -dalla famiglia alla scuola, dalla politica all’imprenditoria- abbondano le risposte, è probabile che molte siano sbagliate. L’inflazione delle risposte è sempre sospetta. Basta prestare un minimo di attenzione a ciò che accade intorno a noi, dove le risposte battono nettamente le domande eppure replichiamo, con sorprendente ostinazione, sempre gli stessi errori. Dove tutto è risolto nulla cresce.
In genere, un sistema che funziona davvero è ricco di domande e povero di risposte, proprio tale dislivello innesca il processo di ricerca che conduce al progresso o al cambiamento. Quando nel 2008 mi sono recato ad Auschwitz, sapevo con certezza che avrei trovato solo domande così come sapevo che di quelle domande avevo un estremo bisogno. I luoghi come Auschwitz sono immensi campi arati, una miriade di solchi dove crescono solo interrogativi, spesso senza risposta, per questo sono contesti ideali per chi educa e per chiunque eserciti importanti responsabilità.
Le certezze e l’illusione dell’autosufficienza, quando ci occupiamo di bambini e di ragazzi, sono peggio dei dubbi, talvolta molto peggio, perché chi educa necessita di domande, possibilmente di domande senza risposte. Solo i dubbi ci restituiscono l’inquietudine e l’umiltà dei cercatori, riportando la vita dove tutto sembra spento. I bambini non sopportano più di essere sotterrati sotto montagne di risposte che non sfiorano nemmeno la loro condizione interiore.
Le domande sane
Abbiamo bisogno di professionisti che stimolino domande sane, che guardino, ascoltino, “accompagnino” e accrescano le competenze. Solo le domande creano dislivelli e lo sforzo di colmarli ci salva, anche quando non completiamo il processo. Dove c’è un dislivello di energia tutto rimane in ebollizione, ma una volta raggiunto l’equilibrio in tutte le parti, ogni vitalità sembra svanire.
Vi sono troppe certezze intorno a noi, ma non sembrano essere quelle giuste, che in genere fanno progredire. Quella volta, tornando, mi domandavo quanti dubbi avessimo “asportato”, tutti insieme, pensavo che ogni treno per Auschwitz fosse un convoglio carico di minatori, che scavano e portano via interrogativi, per sé e per gli altri, quelli a cui racconteranno. A questo servono le domande, anche quando, o forse soprattutto, non trovano risposte. Le certezze spengono gli sguardi dei bambini, burocratizzano la scuola, preparano generazioni di adulti vuoti, apatici, o insegnanti che sovente si difendono con la presunzione o cercano risposte eludendo le domande. Ma le certezze moltiplicano le Auschwitz, negli ultimi mesi le prove sono diventate persino sfacciate.
Guardavo i ragazzi nei campi, i giorni precedenti, erano muti e assorti, anche loro minatori intenti allo scavo, ognuno seguiva un indizio personale, qualcosa che colpiva la fantasia, una foto, una valigia con un numero stampigliato col gesso, un giocattolo, una ciocca di capelli, perfino un arto di legno tra quelli ammucchiati in una delle grandi teche predisposte nei blocchi. Nessuno di quei giovani sembrava avere trovato risposte. Meno male.
Se ciascuno la smettesse di fornire risposte a getto continuo, a cominciare dagli specialisti, avremmo bambini contenti di stare al mondo, e a scuola, nonché milioni di soldati, oltre che di civili, ancora vivi e un’infinità di orfani in meno.
Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).
È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/