L’odio e la guerra prima passano da casa. La nostra

Cronaca
Domenico Barrilà

Domenico Barrilà

Nella faretra dell’educatore numerose sono le armi che alimentano la violenza, a cominciare dalla tendenza a viziare i figli fino alla difesa preventiva di essi, qualunque cosa accada. Mettiamo i vicini sempre dalla parte della ragione, ragionando spesso per pregiudizi

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Davanti alla violenza quotidiana, la stessa che applicata su vasta scala diventa guerra, ci sentiamo tutti spettatori innocenti, se non addirittura vittime. Forse per proteggerci, forse per difetto di compassione.

Un sentimento di estraneità che migra verso altre manifestazioni della nostra vita, compresa l’educazione dei figli. Non è detto lo si faccia volontariamente, ma i messaggi educativi più convincenti passano dalle azioni non intenzionali. Le parole possono contare davvero poco all’interno di un rapporto pedagogico.

L’educazione, infatti, non è un flusso intermittente o normato secondo orari d’ufficio, ma è sempre attivo, come il battito del nostro cuore, che di notte non si addormenta, per fortuna.

Difficile trovare genitori, insegnanti o educatori a qualsiasi titolo, disposti ad ammettere di avere rilasciato messaggi di odio o di violenza, sia perché nessuno ritiene di essere violento sia perché si pensa solo alle comunicazioni intenzionali, in genere quelle verbali.

Un paziente mi racconta di quanto la sorella sia instancabile nel seminare verbalmente sani principi. Peccato che quella stessa congiunta abbia “sistemato” i propri figli utilizzando potenti conoscenze. È raro che un genitore si renda conto di quanta violenza sociale determini il fenomeno della raccomandazione, di quanto risentimento, precursore dell’odio e della violenza, essa scateni. Spesso a compiere tali infrazioni sono le stesse persone che invocano l’introduzione di criteri di merito nella società o lamentano carenze di solidarietà tra le persone.

La raccomandazione, che rompe la coesione sociale, è pura violenza, ma quando la pratichiamo diventiamo troppo generosi con noi stessi per riconoscerlo.

 

Nella faretra dell’educatore numerose sono le armi, è il caso di dirlo, che alimentano la violenza, a cominciare dalla tendenza a viziare i figli fino alla difesa preventiva di essi, qualunque cosa accada. Molti ricorderanno le parole della madre di due fratelli che uccisero un povero ragazzo a pugni e calci. Infastidita dal risalto dato alla vicenda, accuso la stampa di esagerare sostenendo che non era morta una regina!

Abbiamo il vizio della contiguità a svantaggio di una visione inclusiva. Mettiamo i vicini sempre dalla parte della ragione, ragionando spesso per pregiudizi.

Per tale ragione, ignorare il contributo delle proprie azioni al moltiplicarsi delle ingiustizie, rende ogni guerra sempre “la guerra degli altri”, quasi una fastidiosa astrazione. Per questa via l’autocritica è bandita e si continua all’infinito a ripetere gli stessi errori, così i figli diventano i messaggeri delle sviste genitoriali. Un giovane alcolista è nato in una famiglia di accaniti bevitori, che gli raccomandavano sempre di stare lontano dall’alcol, perché “faceva male”. Possiamo immaginare l’epilogo. Una volta il padre mi disse che lui e i suoi fratelli cercavano di non bere mai davanti al piccolo di allora. Come se i bambini percepissero solo ciò che piace a noi adulti, quasi i minori fossero davvero dei “minori”.

Ammettere con onestà che la famiglia può diventare un’incubatrice di atteggiamenti antisociali, precursori di brutte evoluzioni, non è facile, ma se non vi sarà una forte virata in questa direzione finiremo per diventare vittime di noi stessi, travolgendo i nostri figli e il mondo in cui si muovono, dato che la convinzione di essere sempre innocenti è più pericolosa della colpevolezza, perché alimenta false convinzioni collettive, anche sulla guerra stessa.

Tempo fa mi trovavo in una città dove ero stato invitato per la presentazione di un mio libro. La mattina mi ero concesso una passeggiata per le vie del centro. Sul corso principale campeggiava il manifesto di una mostra fotodocumentaria. “L’occupazione italiana della Libia. Violenza e colonialismo. 1911 – 1943”.

C’erano troppi vocaboli inquietanti in quell’annuncio (occupazione, italiana, violenza, colonialismo), così mi sono deciso a entrare. È stato un viaggio durissimo da reggere, mi sono chiesto a lungo quali fossero le mie personali responsabilità.

Invito i lettori ad approfondire quello specifico fatto storico, può essere un’ottima occasione per interrogare le proprie coscienze e guardare da un’angolatura più partecipe anche le guerre in corso, dove le carneficine, da una parte o dall’altra, ci sembrano aliene dalla nostra storia e dal nostro modo quotidiano di agire.

“Farci carico” non significa esibire pentimento, ma indagare possibilità di comportamenti alternativi, provando a sintonizzarci meglio sulla vita e sugli interessi altrui. Educare davvero i bambini, introdurli alla cruda realtà, è impossibile senza passare da questa scomoda strettoia, immaginare un mondo in pace è illusorio senza investire coraggio e onestà intellettuale. Vitale tenersi lontani dalle ideologie, che presto diventano pregiudizi, spingendoci a interpretare la realtà in anticipo, come se avessimo in mano le formine con cui modelliamo la pastafrolla quando prepariamo dei biscotti.

Sono proprio quelle formine, rigide e immodificabili, a scatenare le guerre, oggetti che andrebbero sostituiti con la duttilità, con la capacità di insegnare, al bambino, all’adulto di domani, che il suo punto di vista è uno degli otto miliardi possibili.

In valle di Fassa c’è un monte, nel gruppo del Latemar, che le persone chiamano Re Laurino, perché visto da Moena e da Soraga ricorda il profilo di un uomo serioso. Se però ci spostiamo di un paio di chilometri e andiamo verso Vigo, quell’effetto svanisce, ora vediamo grossomodo la coda di un pavone.

Se dimentichiamo di insegnare ai bambini di Moena e di Soraga ad assumere il punto di vista dei coetanei di Vigo, e viceversa, non li aiuteremo a intendersi.

Piccoli malintesi, certo, condensati qui in una metafora innocente, il mondo è pieno di abusi di soggettività assai più drastici quello descritto, se non alimentiamo lo sforzo di comprensione del lontano, la sommatoria di tante minuscole incomprensioni potrebbe annientare il Pianeta.

Forse lo sta già facendo, senza che ce ne accorgiamo.

 

 

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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