I giovani di S. Egidio, in giro per le strade deserte di San Pietro durante il Covid

Cronaca

Simone, insieme agli altri giovani di S. Egidio, ha continuato durante l'emergenza coronavirus a portare i pasti alle persone che vivono per strada. In questi mesi sono aumentati i ragazzi che arrivano per fare parte del giro. Un mondo troppo spesso invisibile fatto di persone e amicizie. 

Era il 27 marzo 2020, quando ha fatto il giro del mondo l’immagine di piazza San Pietro deserta con un solo uomo sotto la pioggia. Ma anche se non si vedevano, ce ne erano molti altri. Sotto ai portici soprattutto, per ripararsi dall’acqua. Sono le persone che non hanno una casa e dormono lì, vicino al Papa. Anche in questi mesi in cui l'ordine era di non uscire e di stare lontani l'uno dall'altro.

Alcuni si sono costruiti piccole casette con il cartone, altri si fanno bastare un sacco a pelo, o, addirittura, solo una coperta. Come Elia, che arriva da Vienna, dove faceva l’insegnante di piano. Il suo posto è nel sottopassaggio, sta qui da cinque anni. I ragazzi di Sant’Egidio che gli portano da mangiare il lunedì e il giovedì li conosce per nome. Loro sanno dove trovarlo per potergli portare il pacchetto di cibo e, quando ce l’hanno, amuchina, fazzoletti o altre piccole cose che possano essergli utili. Elia non ha un sacco a pelo. Franco invece avrebbe bisogno di un paio di scarpe perché quelle che ha da tempo hanno la suola consumata e i piedi gli fanno male. Lui arriva dall’Emilia-Romagna.

Ci vuole tempo per farsi raccontare le loro storie e l’unico modo per aiutarli è iniziare con il chiedere il loro nome. Parlarci, anche se ora è difficile poterlo fare mantenendo le distanze di sicurezza, e, se ce l’hanno, chiedere il loro numero di telefono. “Non si tratta di portargli da mangiare o di considerarli semplicemente bisognosi di aiuto”, dice Matteo, che fa parte del gruppo, “per noi sono amici con cui ogni giorno stringiamo un rapporto più forte. E nello stesso tempo queste amicizie rappresentano il nostro modo di vedere un mondo diverso”.

C’è Cristiano, che dorme in una piazzetta di Borgo Pio. È la sua casa e per questo ha appeso un orologio all’albero che gli fa ombra sulla testa. “Quando gli si sono fermate le lancette”, racconta Simone, “ci ha chiesto se potevamo portargli delle batterie nuove. Era molto felice quando la volta successiva ha visto che ce ne eravamo ricordati”. Simone ha 22 anni, studia Scienze Politiche all’università, e coordina il gruppo. Si preoccupa di segnare tutte le donazioni previste e di affidare i compiti a ciascuno dei ragazzi che, con l’emergenza coronavirus, sono diventati moltissimi. “Ormai siamo un esercito”, scherza Simone. Ognuno di solito porta qualcosa che ha cucinato, poi si preparano i pacchetti tutti insieme e ci si divide per poterli distribuire. “Siamo riusciti ad aumentare i pasti perché per fortuna arrivano molte donazioni”, spiega Simone, “in tutto prepariamo circa 120 pacchetti”. Un panino con dentro qualcosa di nutriente (carne e verdura se si riesce), un dolce, un succo e poi, non sempre, frutta e una vaschetta con pasta o altro da mangiare. Capita anche che qualcuno ringrazi e non prenda il pacchetto. “Ho già cenato”, dicono. Magari sono passati già i volontari della Croce Rossa. “Non ti preoccupare, prendilo comunque per domani”, rispondono i ragazzi.

I "ragazzi del giro" sono un punto di riferimento. Tutti li aspettano all’orario stabilito, magari anche solo per chiedere un consiglio. Alcuni di loro sono riusciti ad ottenere il reddito di cittadinanza, ma non è abbastanza per riuscire a vivere in una casa vera. “A me non importa, io me la cavo a dormire per strada”, dice Marco, mentre chiede informazioni a Simone per un posto letto in un ostello, “ma per molte persone, come le ragazze, è più pericoloso”. 

A dormire per strada ci sono molti ragazzi, soprattutto stranieri. I più giovani di solito sono in gruppo, si fanno compagnia. Se uno è in giro, chiedono di poter prendere un pacchetto anche per lui. Mentre parlano, indicano qualche abito sparso o un sacco a pelo vuoto: non vogliono si pensi stiano dicendo una bugia per poter avere cibo in più. Ci sono delle sere in cui si deve chiamare l’ambulanza. Accade quando qualcuno sta male. Spesso perché ha bevuto troppo. “Non voglio più bere, non è da me. Ormai sono una signora e urlare non mi piace” dice Anna, “voglio essere lucida”. È una sera in cui sta bene, sorride e parla nel suo italiano perfetto, lei che è arrivata dalla Somalia quando aveva 12 anni, più di 40 anni fa. Racconta della sua vita in Italia, dei suoi figli. “Veronica me l’hanno portata via quando aveva due anni e mezzo. Io sono un’ex tossica e alcolizzata”, sorride mentre lo dice, come a far capire che non è arrabbiata. Accetta la definizione che le hanno dato, ma continua a credere che un giorno riuscirà a smettere di bere.

Italiani o non italiani, tra loro non si fanno queste differenze. “Questo Paese mi ha accolto a braccia aperte quando sono arrivato dalla Spagna”, dice Pablo sorridendo in un italiano che risente ancora molto delle sue origini peruviane, “ha permesso a mio figlio di studiare”. Vive in Italia da trent’anni: dopo essere fuggito dal suo Paese, distrutto dalle dittature, e aver viaggiato in Europa, ha trovato il suo posto a Roma. Qui ha cresciuto i suoi figli, che ora sono sparsi tra Nuova Zelanda e Germania. Lui non vuole dargli disturbo. “Il mio dio è il sole, io sono felice così”, afferma, dispiaciuto del fatto che non i ragazzi non conoscano la storia degli Inca. “Alla fine, sto bene qui”, dice, indicando San Pietro.

 

La basilica è ancora più imponente, con tutte le strade vuote. Sono le 22, c'è il coprifuoco, tutti sono dentro casa. Sotto al colonnato girano i ragazzi. Ci si augura “buonanotte”.

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