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La nostra storia: 9 racconti di chi ha vissuto l’emergenza Coronavirus

Cronaca

di Tonia Cartolano

Nel documentario di Tonia Cartolano e Emanuela Ambrosino il racconto del dietro le quinte emotivo dei terribili giorni della pandemia (disponibile anche On Demand)

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Oltre 100 giorni raccontati con lucidità e dolore. 123 giorni per la precisione, un calvario che inizia il 20 febbraio del 2020, quando l’Italia scopre di avere il primo paziente positivo al coronavirus, che è anche il primo caso diagnosticato in Europa. Lo scopre una giovane dottoressa che quel giorno era in servizio all’ospedale di Codogno, Annalisa Malara. Ha 38 anni, la stessa età di Mattia, il paziente 1. Il racconto del documentario parte da lui.

È la prima volta che Mattia Maestri decide di parlare approfonditamente di quel che è successo. E lo fa con il sorriso finalmente, nonostante tutto, nonostante il covid si sia portato via suo padre, che Mattia non ha avuto neppure il tempo di salutare. “Ho saputo che stava morendo quando mi sono svegliato dal coma, me lo ha detto mia madre al telefono. E poi dopo mezza giornata se n’è andato, nel giorno della festa del papà” racconta Mattia.

Ma c’è anche il ricordo delle ore in cui nessuno aveva capito come mai un paziente così giovane stesse così male e non rispondesse alle cure. “Se penso oggi a un episodio capitato durante il mio secondo ricovero sorrido – racconta Mattia-. Chiedo ad un operatore sanitario se il mio potesse essere un caso di coronavirus e in dialetto mi risponde ‘il coronavirus Cudogn ‘nsa nianche addu sta’, che significa ‘il coronavirus non sa neanche dove sia di casa Codogno’ e invece siamo stati l’inizio di tutto”.

Comincia da lui, dunque, la storia. E da un piccolo paese del basso lodigiano, Codogno, di cui molti, anche in Italia, ignoravano l’esistenza fino ad allora. Ed è proprio lì, nell’ospedale del piccolo centro, che una giovane dottoressa, Annalisa Malara, timbra il cartellino il 20 febbraio, per dare inizio a una giornata che sarebbe durata 36 ore, finendo venerdì 21 febbraio. È allora che la dottoressa cremonese lascia la terapia intensiva, dopo aver scelto e deciso di fare il tampone a Mattia, risultato positivo. “Il protocollo non mi obbligava a farlo, ma era l’unico modo per avere conferma ad un sospetto”, dice la dottoressa Malara. Le due condizioni richieste dal protocollo contenuto in un foglio di carta datato 27 gennaio e diramato dal ministero della Salute erano un recente viaggio in Cina o l’esposizione a un paziente affetto da Corononavirus. E in quel caso niente. Una certezza, però, ce l’ha la dottoressa: quel paziente era giovanissimo, stava per morire e, per quanto fosse remota quella possibilità, non si poteva escludere nulla, tantomeno quel virus. E infatti il sospetto viene confermato. “Siamo stati i primi a fare un tampone ad un paziente autoctono e siamo stati i primi a diagnosticare un caso di coronavirus su un paziente europeo”, rivendica oggi la dottoressa Malara.

Un dietro le quinte emotivo è il racconto del prof Raffale Bruno, il direttore delle Malattie infettive del Policlinico San Matteo di Pavia. È lui che ha curato e dimesso il paziente 1, Mattia, che oggi lo considera il suo nuovo papà. “È successa una cosa a cui nessuno era pronto, né i medici né i decisori- dice Bruno. Nessuno aveva studiato il coronavirus sui libri, abbiamo dovuto fare esperienza insieme ai pazienti”.

È un racconto doloroso quello del professor Bruno. “Ti segna inevitabilmente avere a che fare con la morte perché pensi alle storie che ci sono dietro e alle famiglie. Non dimenticherò mai una giovane paziente che in un sol giorno ha perso sia la mamma che il papà a causa del covid”.

E poi c’è il dramma dei medici di base. Non ha timore la dottoressa Anna Carla Pozzi, che ha uno studio a Pioltello, periferia di Milano, a denunciare. “Noi medici di famiglia ci siamo trovati ad affrontare la pandemia a mani nude e abbandonati”.

La stessa sensazione che cerca di trasmettere Claudio Cancelli, preside in pensione, ex insegnante di fisica, oggi sindaco di Nembro, uno dei comuni più colpiti della provincia più martoriata d’Europa, con un numero di decessi quasi 7 volte in più della media degli anni precedenti. “Io la sera raccoglievo i nomi delle persone decedute e cercavo di ricordare chi erano”, racconta il sindaco del comune che insieme ad Alzano Lombardo non è mai diventato zona rossa. “E’ mancato il coraggio”, denuncia oggi Cancelli.

Sceglie di non farsi vedere in volto, invece, una infermiera del Pio Albergo Trivulzio, perché ha paura di ritorsioni. “Quello che ho visto dagli inizi di marzo non lo dimenticherò mai più. È stata una guerra alla quale ho partecipato e che ha visto davvero troppe vittime. Noi ai primi giorni di marzo, racconta l’infermiera, abbiamo portato da casa le mascherine per proteggere gli anziani, ma sono arrivati dall’alto i responsabili dicendoci di non utilizzarle perché avremmo potuto spaventare gli ospiti e i loro parenti. Ci hanno praticamente minacciati, dicendoci che avrebbero potuto licenziarci”.

E poi la parola alla scienza. Parla e lo fa senza remore il professor Andrea Crisanti, esperto di Sanità Pubblica, più famoso per essere stato all’origine del “modello Veneto”, facendo tamponi anche alle persone asintomatiche. È la scelta che farà diventare il Veneto la regione che ha contrastato meglio la diffusione, mentre la Lombardia, ricorda Crisanti, “è stata travolta dal virus che si diffondeva sotto traccia nella prima settimana dopo Codogno, mentre tutti erano impegnati a minimizzare, in una sorta di impazzimento totale dell’Italia che non ha voluto vedere la realtà”.