Processo Black Monkey, per la Cassazione non fu mafia

Emilia Romagna

Definitiva la sentenza per il gruppo capeggiato da Nicola Femia

Il gruppo capeggiato da Nicola Femia, che faceva profitti con le slot, non era un'associazione mafiosa. A mettere la parola fine sulla vicenda è la Corte di Cassazione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Bologna e ha depositato una sentenza di oltre 41 pagine che chiude il processo chiamato 'Black Monkey', dal nome dell'operazione della Guardia di Finanza e della Dda che a gennaio 2013 vide eseguite 29 ordinanze di custodia cautelare L'accusa di associazione 'ndranghetistica era caduta in appello a ottobre 2019, con condanne ridotte: per Femia, capo dell'organizzazione, la pena era passata da 26 anni e 10 mesi del primo grado a 16 anni. Parte civile nel processo era anche il giornalista Giovanni Tizian, per le minacce che si sentivano nelle intercettazioni tra gli indagati.
    Secondo la Cassazione, prima sezione penale, la Corte di appello ha ben spiegato le ragioni per cui gli episodi estorsivi contestati non siano espressivi del programma di un'associazione necessariamente di tipo mafioso ed è stata inoltre correttamente evidenziata l'assenza "di un concreto esercizio, sufficientemente percepito, sul territorio di riferimento e nel contesto sociale della forza di intimidazione tipica dell'associazione di tipo mafioso, anche e specificamente in riguardo alle categorie interessate dall'attività commerciale".
    Né è significativo per valutare la 'mafiosità' del gruppo il fatto che l'associazione capeggiata da Nicola Femia intrattenesse rapporti con altri gruppi criminali di sicura natura mafiosa. La Cassazione ha poi annullato senza rinvio per prescrizione la sentenza nei confronti di quattro imputati e ha rinviato ad un nuovo appello la sola posizione di Femia, per rideterminare la pena per fatti commessi prima del 18 maggio 2009.
    Inammissibili i ricorsi di altri sei imputati, tra cui i due figli di Femia, Rocco Maria Nicola e Guendalina, condannati dunque in via definitiva, rispettivamente, a dieci e cinque anni. (ANSA).
   

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