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Spiagge libere, Legambiente: 60% di costa occupata da stabilimenti

Ambiente
Un tratto della spiaggia di Posada in Sardegna (archivio Fotogramma)

Lo rivela l'ultimo dossier "Le spiagge sono di tutti!" che analizza le contraddizioni della privatizzazione delle zone costiere italiane. Un fenomeno che vale allo stato 103 milioni di euro a fronte dei 15 miliardi di guadagni annui dei gestori privati

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Allarme spiagge libere in Italia: oltre il 60% delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari. Lo rivelano i numeri che Legambiente ha raccolto nel dossier "Le spiagge sono di tutti!", che denuncia come nella Penisola trovare un lembo di costa libera sia diventata una vera e propria impresa per turisti e cittadini.

Oltre la metà delle spiagge sono private

Il rapporto, diffuso l'11 agosto, precisa che le poche spiagge ancora libere sono ubicate in porzioni di costa di "Serie B", vicino alle foci di fiumi, fossi o fognature e quindi dove la balneazione è vietata. Una vera e propria contraddizione per un paese come l'Italia che, ricorda Legambiente, vanta ottomila chilometri di costa tra Penisola, le due isole maggiori e le oltre 800 isole minori. Il documento dell'associazione denuncia il fenomeno della privatizzazione delle coste italiane, delle concessioni senza controlli e dei canoni irrisori a fronte di guadagni enormi per gli stabilimenti. È stato calcolato che nel 2016 l'Italia abbia incassato poco più di 103 milioni di euro a fronte di un giro di affari stimato da Nomisma di 15 miliardi di euro annui. "Nella Penisola – scrive Legambiente - sono ben 52.619 le concessioni demaniali marittime, di cui 27.335, sono per uso 'turistico ricreativo' e le altre distribuite su vari utilizzi, da pesca e acquacoltura a diporto, produttivo (dati del MIT). Si tratta di 19,2 milioni di metri quadri di spiagge sottratti alla libera fruizione: ovvero secondo i calcoli circa il 60% delle coste che, in alcuni casi arriva a sfiorare il 90% di spazio occupato da concessioni balneari

I casi negativi delle città

Secondo i dati diffusi uno dei casi più allarmanti riguarderebbe l'Emilia-Romagna, una delle regioni principali del turismo in Italia: qui la percentuale delle spiagge libere sarebbe solo del 23%. Tra le città, invece, spicca in negativo Mondello, in Sicilia, dove il 90% del suo chilometro e mezzo di sabia finissima è stato dato in concessione e pochi lidi – precisa Legambiente - consentono il passaggio dei turisti alla battigia. A Santa Margherita Ligure gli spazi liberi sono solo l’11% del totale. E poi in Romagna, a Rimini, dove non si raggiunge nemmeno il 10% di spiagge libere. A Forte dei Marmi sono 100 gli stabilimenti su circa 5 km di costa, mentre Bacoli (Campania), nonostante il comune abbia previsto che il 20% di costa dovesse essere adibito a spiaggia pubblica, ad oggi non raggiunge nemmeno il 2%. A questi e altri casi si deve declinare il problema dei controlli inesistenti nei confronti dei lidi e per il quale Legambiente chiede una legge quadro nazionale per tutelare i diritti di tutti i cittadini ad avere lidi liberi, gratuiti e accessibili.

La proposta di Legambiente

Per l’associazione ambientalista una nuova regolamentazione dovrebbe prevedere quattro punti chiave: almeno il 60% delle spiagge deve essere lasciato alla libera fruizione; occorre premiare la qualità nelle assegnazioni in concessione; definire canoni adeguati e risorse da utilizzare per la riqualificazione ambientale; garantire controlli e legalità lungo la costa. "Ormai è sotto gli occhi di tutti – spiega Edoardo Zanchini, Vicepresidente nazionale di Legambiente – la distesa interminabile di stabilimenti balneari che, dal Tirreno all’Adriatico passando per lo Jonio, costellano le coste della nostra Penisola. In modo progressivo cabine e strutture, ristoranti, centri benessere e discoteche stanno occupando larghe fette della battigia".

Le regioni virtuose

Sul versante della regolamentazione Legambiente ha segnalato anche i casi virtuosi di quelle Regioni che nonostante l' “assenza normativa” sono riuscite a intervenire. Tra queste gli ambientalisti segnalano la Puglia, la Sardegna e il Lazio. "La Puglia – scrive Legambiente - con la Legge regionale 17/2006 ha fissato una percentuale di spiagge libere maggiore (60%) rispetto a quelle da poter dare in concessione (40%). La Sardegna ha approvato delle "Linee guida per la predisposizione del Piano di utilizzo dei litorali" che definisce criteri in relazione alla natura e alla morfologia della spiaggia e stabiliscono un minimo del 60% di spiaggia libera, che nei litorali integri deve raggiungere l’80%. Il Lazio ha fissato al 50% la percentuale di costa da lasciare libera ed i Comuni non in regola non potranno più rilasciare nuove concessioni. Le maglie nere vanno invece alla già citata Emilia Romagna dove il limite minimo fissato per le spiagge libere è di appena il 20%, Molise (30%), Marche (25%), Campania ed Abruzzo (20%). In 5 Regioni (Toscana, Basilicata, Sicilia, Friuli Venezia Giulia e Veneto) non esiste invece nessuna norma che specifichi una percentuale minima di costa destinata alle spiagge libere o libere attrezzate.

Gli incassi statali Regione per Regione

Oltre a creare il danno, la situazione denunciata da Legambiente porta con sé anche una beffa di natura finanziaria legata al basso costo dei canoni demaniali. Quote per le quali nel 2016 lo stato ha incassato poco più di 103 milioni di euro a fronte di un giro di affari stimato in 15 miliardi di euro. Secondo Legambiente, i dati sulle entrate derivate dai canoni, presentati dal Governo nel 2016, sono ancor più clamorosi se analizzati per Regione. Ai primi due posti ci sono Toscana e Liguria con poco più di 11 milioni l’anno. Poi vengono Lazio (10,4 milioni), Veneto (9,527 milioni), Emilia-Romagna (8,9 milioni), Sardegna, Puglia e Campania (tutte sopra i 7 milioni) e Calabria con poco più di 5 milioni. E poi ancora in Basilicata 452mila euro ed in Sicilia dove gli incassi sono appena 81.491 euro. Nel report Legambiente ricorda che nel 2009 l’UE ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, chiedendo la messa a gara delle concessioni visto che la Direttiva Bolkestein del 2006 prevede la possibilità, anche per operatori di altri Paesi dell’Ue, di partecipare ai bandi pubblici per l’assegnazione. L’Italia, ignorando i moniti UE, ha disposto la proroga automatica delle concessioni fino al 31 dicembre 2020. Ma la Corte di Giustizia UE l’ha bocciata con una sentenza del luglio del 2016.