Le donne e la guerra: orrore e poesia nelle foto di Pagetti

Spettacolo
Gruppo di ragazze afghane con il burqa, indumento imposto dalle severe regole del regime talebano (© Franco Pagetti)
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In occasione della mostra "Routine is fantastic - Donne", in corso a Bologna, il fotografo dell'agenzia VII, ripercorre le tappe della sua carriera, in cui ha seguito i maggiori conflitti in giro per il mondo. L'INTERVISTA

di Pietro Pruneddu

Le aule di Chimica all'università. Le passerelle di moda e le copertine patinate. Le pallottole, gli arresti e i morti ammazzati in guerra. Tre mondi lontani, inconciliabili all'apparenza. Franco Pagetti ha vissuto tre vite in una. Oggi, a 64 anni, quel giovane ricercatore che mescolava elementi in laboratorio è uno dei più apprezzati fotoreporter nei teatri di conflitti e carestie. Il passaggio dalla tavola periodica a scattare foto dentro le guerre è un racconto di scelte, rischi, evoluzioni.

La mostra a Bologna - Trentaquattro immagini di Pagetti sono esposte a Bologna, a Palazzo D'Accursio, fino al 19 ottobre. I suoi scatti compongono la mostra "Routine is fantastic - Donne", un progetto dell'UNHCR, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Una carrellata di volti e storie, pescate dagli archivi del fotografo originario di Varese. I soggetti sono le donne al tempo dei conflitti. Ritratti di rifugiate che hanno perso tutto in guerra. Figli, mariti, case. Ma non la dignità. Ci sono profughe dagli occhi gonfi, madri che stringono piccole teste addormentate, ragazze che si aggirano tra le macerie.

"La collaborazione con UNHCR è nata più di quindici anni fa", spiega Pagetti a Sky TG24.it. "Mi mandarono a coprire la guerra civile a Timor Est, poi in Sudan durante la carestia nel '98. Mi hanno richiamato nel 2013 per sviluppare questo progetto ora esposto a Bologna". Una selezione di lavori per raccontare la tragica quotidianità della condizione femminile nei Paesi in guerra. O come preferisce Pagetti, "in zone 'affette' da guerre".

Dalla moda alla guerra - E non può essere un caso, per un fotografo cresciuto tra passerelle e set glamour, che al centro dei suoi scatti ci siano le donne. "Non rinnego la moda e la pubblicità. A suo modo è stata una grande scuola", spiega Pagetti. "Una foto di moda è storia del costume di un'epoca, come un quadro di Pinturicchio". Le tecniche usate, poi, tornano utili nei modi più impensabili. "A Baghdad, nel 2007, ho fatto un servizio sulle differenze tra sciiti e sunniti. Le uniche caratteristiche che li distinguono sono la posizione durante la preghiera e il nome sulla carta di identità. Così, entravo nelle case, fotografavo le persone e sovrapponevo con doppia esposizione il loro documento. Avevo fatto esattamente la stessa cosa per la pubblicità di un profumo".

La ricerca della femminilità è la stessa a New York come a Kinshasa. "Anche quando ritraggo una donna col burqa, cerco un rivolo di vento che dia grazia a quel pezzo di stoffa", spiega Pagetti a Sky TG24.it. “In Afghanistan son finito in prigione per aver fotografato delle ragazze a volto scoperto, cosa proibita dall'allora regime talebano. Eppure quelle giovani donne a Kabul sorridevano, come una liberazione”.

Le donne torturate in Cile - Le donne sono state il fulcro anche del primissimo lavoro da fotoreporter di Pagetti, nel 1988. "Mi mandarono in Cile e il primo giorno a Santiago fotografai una caserma e fui arrestato", racconta il fotografo dell'agenzia VII. "Mi misero in cella in un reparto di donne, molte delle quali condannate a morte per dissidenza politica contro Pinochet. Feci dei ritratti e quando fui scarcerato ero diventato un eroe della resistenza, potevo entrare ovunque e realizzai un lavoro sulle donne torturate dal regime". 

I conflitti in giro per il mondo - Da allora Pagetti ha girato il mondo, testimoniando l'orrore di cui è capace l'uomo: Sudan, Kosovo, Afghanistan, Sierra Leone, Sudafrica, Israele, Palestina, Indonesia, Kashmir, Pakistan. Nel gennaio 2003 è arrivato in Iraq, unico fotografo italiano presente, in anticipo di tre mesi sull'attacco americano. Ha coperto il conflitto per il prestigioso Time Magazine, che gli ha affidato diverse copertine. Tra Kabul e Baghdad ha conosciuto Joao Silva, altro grande della fotografia di guerra. "Ci chiamavano le 'calamite delle pallottole'. Abbiamo corso tanti rischi ma io cerco sempre di stare molto attento. Anche Joao lo era, prima di saltare su una mina a Kandahar e perdere le gambe".

Dopo l'Iraq è stato in Libia e in Siria. "L'avanzata di Isis in posti che conosco molto bene mi crea angoscia. Penso sempre alle persone che ho conosciuto, a qualche bambina che ho ritratto, e mi chiedo: 'saranno vivi?'". Pagetti vorrebbe tornare ad Aleppo ma in questo momento sa che non avrebbe la libertà di movimento per lavorare a modo suo: "Non ho la garanzia di poter uscire dal Paese e inoltre metterei a rischio le persone che mi aiuterebbero. Se gli succedesse qualcosa morirei dai sensi di colpa".

Il chimico empatico - L'empatia è la chiave del suo muoversi e scattare. Al contrario del "chimico" cantato da Fabrizio De Andrè, incapace di comprendere i sentimenti e le relazioni umane, Pagetti ha combinato la razionalità scientifica alla vicinanza con i soggetti delle sue foto. "I miei esempi di chimici sono Primo Levi e Philip Jones Griffiths, il fotografo gallese che in Vietnam documentò gli effetti della guerra sulle persone". Le conseguenze sono drammaticamente sempre uguali, i volti delle vittime identici. E lo si nota negli scatti di Pagetti. Quelli di 15 anni fa potrebbero essere stati immortalati avantieri. Perché la guerra, secondo lui, "è di chi la subisce. È un blocco intellettuale, una barriera che ferma il concetto di tempo".

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