Telegram e le violenze online mai fermate: cosa si nasconde nelle chat

Migliaia di foto, di video, di commenti sessisti e violenti, di “caccia” alle ragazze che sono amiche, ex o semplicemente persone segnalate da qualcuno del gruppo e poi analizzate da un bot che ne seziona ogni parte del corpo e la etichetta in categorie come se fosse merce da consumare. E poi prove di mascolinità, in cui si chiede alle persone appena entrate di procurarsi materiale pornografico amatoriale rubando scatti e clip alle proprie partner. Queste che ho descritto sono solo alcune delle modalità con cui in decine di gruppi e canali Telegram da migliaia di utenti compiono atti di violenza online con la percezione di essere in un ambiente protetto, che “tutela” la loro privacy e sicurezza. Ne parlano in modo diffuso e accurato le ricercatrici Silvia Semenzin e Lucia Bainotti nel loro libro “Donne tutte puttane. Revenge porn e maschilità egemone” , uscito a seguito di un’analisi qualitativa di un campione di conversazioni in 50 canali e gruppi di Telegram italiani. Il titolo deriva proprio dal nome del gruppo WhatsApp creato da una decina di uomini allo scopo di scambiarsi foto e video intimi di ragazze senza che le ragazze ritratte ne fossero consapevoli o addirittura scattate a loro insaputa. E qui abbiamo già un primo indizio sul ruolo della tecnologia nello sviluppo di queste dinamiche: se l’ambiente digitale favorisce certi comportamenti, e a volte veri e propri atti illegali, allora chi vuole aderire troverà il modo di farlo, in una piattaforma o in un’altra. Il caso delle violenze online dentro il software di messaggistica russo è tornato in cronaca dopo l’arresto del fondatore e ceo Pavel Durov, attualmente in libertà condizionata dopo il suo arresto avvenuto all'aeroporto di Parigi-Le Bourget il 24 agosto 2024, nell'ambito di un'inchiesta su dodici capi di imputazione, tra cui traffico di droga, diffusione di contenuti pedopornografici, frode e promozione del terrorismo. La risposta di Durov, e quella che è sempre stata in realtà da parte del fondatore, è che “Telegram rispetta le normative europee e ha affermato di non avere nulla da nascondere, sottolineando che la piattaforma non è responsabile degli abusi commessi da terzi”. Semenzin e Bainotti hanno passato mesi dentro canali misogini e sessisti, dove alcuni casi si scambia anche materiale pedopornografico, per capire come funziona questo angolo della “manosfera” italiana e perché Telegram è il luogo dove viene reso possibile tutto questo. Per “manosfera” si intende una rete di comunità sessiste online, fatta di gruppi, blog, canali Youtube, Twitch e account Instagram, dove gli uomini esercitano ed esaltano i valori della misoginia, queerfobia, razzismo e violenza predatoria, come ben scrive Alessandro Mazzi in questo pezzo per Siamo Mine. “Telegram prende forma come un luogo in cui pratiche misogine diventano dei modi per essere maschi insieme, all’interno di un gruppo”, scrivono le ricercatrici nel loro libro, dove viene raccontato nel dettaglio come funzionano questi gruppi e di come la specifica “affordance”, cioè le caratteristiche intrinseche, dell’app di Telegram, permetta il proliferare di questi comportamenti anche quando gruppi e canali vengono chiusi. “La peculiarità di Telegram non è tanto l'anonimato, quanto più la percezione che si crea tramite questa narrazione, e che prevede una serie di caratteristiche che creano un ambiente propizio in cui gli utenti si sentono protetti nel compiere tutta una serie di comportamenti. È molto creduto e narrato che Telegram abbia un sistema di crittografia avanzato, ma in realtà non è vero. App come Signal, ma oggi lo stesso Whatsapp paradossalmente sono più sicuri”, commenta Semenzin, ricercatrice post-doc in Sociologia digitale presso l’Università Complutense di Madrid ed esperta di violenza di genere online. È però l’idea che Telegram diffonde, anche nei suoi termini di servizio, a far credere agli utenti di trovarsi in un luogo che li protegge. Si legge infatti che la tutela del diritto alla privacy è un principio fondante della piattaforma, le conversazioni private degli utenti sono protette e nessun dato personale viene ceduto a terzi. Qual è quindi la responsabilità della piattaforma, e del suo fondatore sotto accusa? “Una delle grandi narrazioni di Telegram è proprio quella di essere una piattaforma sicura, nata per difendere la privacy. Questo è stato anche il grande scudo che Telegram ha usato per rifiutarsi di moderare i propri contenuti, specie quando si parla di violenza di genere online. La nostra ricerca dimostra che la piattaforma in un certo senso incoraggia un certo tipo di uso da parte degli utenti, un uso che è 'gendered', quindi legato al genere, e che influenza molto il modo in cui si utilizza”, specifica Semenzin. In effetti, non esistono gruppi e canali con migliaia di donne che compiono lo stesso tipo di atti illeciti e violenze nei confronti degli uomini, né esistono archivi con fotografie rubate o trafugate in cui le utenti incitano altre utenti ad alimentare questi spazi ed eventualmente a colpire con insulti online i propri partner o ex partner. Eppure sembra che quando si parla di violenza di genere e di stupro online le conseguenze vengano minimizzate. Secondo Semenzin “quando si parla di terrorismo e pedopornografia su internet ci si attiva immediatamente, e quindi le stesse piattaforme si rendono più disponibili anche a collaborare verso la moderazione dei contenuti o comunque fornire dati all'autorità. Quando si tratta di violenza di genere, invece, questo non accade. Perché? Perché la violenza di genere è profondamente normalizzata attraverso quella che si chiama cultura dello stupro”. Come se “una volta che le donne compiono 18 anni, si pensa che sia normale aspettarsi violenza. Invece di trovare soluzioni efficaci, spesso si finisce per fare victim blaming a chi subisce violenza”. Nel libro le ricercatrici ribadiscono che “le piattaforme digitali non sono luoghi neutrali e, anzi, ogni algoritmo che ne costituisce l’essenza si lega profondamente ai valori, alle idee e alla visione del mondo dei suoi creatori”. Per Semenzin però non serve “chiuderle”, perché siamo di fronte a un problema socio culturale, quello della misoginia e della cultura dello stupro, ampliato dalla tecnologia. Tanto che i grandi archivi creati da questi scambi illeciti sono ospitati sui server di Google o di Dropbox, e che inizialmente i link venivano scambiati su Facebook o Whatsapp. Telegram ha 900 milioni di utenti, “è quindi ora di cominciare ad applicare le regolamentazioni che l'Unione Europea ha attivato nei confronti di social media e grandi piattaforme in cui l’azienda di Durov, per ora, non è stata inserita”, conclude Semenzin.