Paralimpiadi, Manuel Bortuzzo: "La sfida di reimparare a nuotare"

3 febbraio 2019. Una data che divide il prima e il dopo della vita di Manuel Bortuzzo. Quella sera, nemmeno ventenne, viene raggiunto da un proiettile alla schiena fuori da un pub alla periferia di Roma. Uno scambio di persona. È vivo grazie a 12 millimetri, quelli che separano quel proiettile dall’aorta addominale. Ma una lesione midollare non gli consentirà più di camminare. Giovane promessa del nuoto, si ritrova di colpo in un corpo che non riconosce, e una carrozzina da cui ripartire che oggi, dice, “è solo un mezzo per muovermi. Non è certo lei a pormi limiti mentali”. Una strada dolorosa quella del ritorno in vasca, fatta di fatica, domande e ripensamenti che Bortuzzo ha scelto di raccontare - per dimostrare che i traguardi passano anche attraverso le cadute - e che cinque anni dopo lo sta per portare a Parigi 2024, per gareggiare alla sua prima Paralimpiade. “Mi sto allenando quattro ore al giorno. Sono carico di emozione”, racconta a SkyTG24 Insider poco prima di partire per la Francia. “Non vedo l’ora di essere lì, e voglio divertirmi”. Il tuo secondo libro si intitola “Soli nella tempesta”. Quale urgenza ti ha spinto a raccontarti oggi? Sono passati cinque anni dall’incidente e in questo tempo ho avuto modo di vivere. Oggi gli altri vedono in me una persona che ce l’ha fatta, ma volevo far capire anche cosa ho dovuto attraversare per riuscirci, in modo tale che le persone si potessero ritrovare. Raccontare che non è stato per niente facile, che mi sono sentito solo anch’io, sono stato male. È normale sentirsi in difficoltà, e affrontare delle tempeste. Come è stato tornare in vasca dentro a un corpo cambiato? Difficile: all’improvviso ero solo un corpo buttato in acqua. Non mi conoscevo più bene. E in quei momenti è normale che riaffiorino i ricordi. Un mese e mezzo prima della sparatoria nuotavo con Gregorio Paltrinieri – un atleta che per me incarna lo sport - e stavamo cercando di andare a prenderci le convocazioni mondiali, poi di colpo mi sono ritrovato in difficoltà a fare una sola vasca. Psicologicamente è stato devastante. Cosa ti ha spronato a continuare? Le opzioni erano due: o ci riprovavo piano piano, o decidevo di abbandonare definitivamente. Il richiamo dell’acqua è stato molto più forte. Mi sono dato molto tempo, ci ho messo due anni. Ma ho scelto la prima, mi sono detto: “Sì che ci riproviamo”. Nel percorso hai mai pensato di lasciare? Inizialmente sì. Sembrava che il nuoto che avevo sempre conosciuto fosse diventato improvvisamente un altro sport. Non avevo idea di dove sarei potuto arrivare, sentivo solo la fatica che mi costava, e mi chiedevo se ne valesse la pena. Con il tempo mi sono risposto di sì. E il tempo di ognuno, qualsiasi esso sia, è importantissimo da rispettare. Hai reimparato a vivere in un corpo diverso dopo 19 anni: il confronto con la vita di prima è stato duro da affrontare? Sì, fare i conti con le differenze che il mio corpo mi ricordava è stato l’aspetto più difficile, soprattutto perché ho scelto di praticare lo stesso sport che amavo prima, accettando di resettare tutto. La mia prima gara di nuoto la feci a cinque anni, nella vita ho quasi trascorso più tempo in acqua che fuori. Quindi il paragone è inevitabile. E ti chiedi di continuo: chissà dove sarei potuto arrivare se quel giorno non fosse successo? Per la tua esperienza, come si parla di disabilità in Italia? Penso innanzitutto che sia impossibile parlarne in modo universale perché la disabilità è tantissime cose, tutte diverse tra loro. Io stesso in sedia a rotelle, paraplegico, so che posso parlare per me stesso e per chi vive una condizione molto simile alla mia, ma non per tutti gli altri. Una persona tetraplegica ha già altri bisogni e difficoltà diverse. Figuriamoci una persona non vedente, per esempio. Quello che potrebbe aiutare è ascoltare le storie e le esigenze delle persone per imparare a conoscere le differenze. Le persone normodotate hanno paura di approcciarsi in modo sbagliato alla disabilità? Spesso sì, ma per fortuna le persone che mi circondano non hanno mai avuto questo problema, per me è un argomento “leggero”, che ho sempre cercato di non far pesare agli altri. Anche con ironia. E forse sta la chiave per la comprensione sta anche nel mostrare che molte volte le cose non sono così complicate. Spiegare e informare è fondamentale per aumentare la consapevolezza. Sì, è importante “istruire” le persone e normalizzare, senza pietismi. Ti faccio un esempio: ho una forte passione per le auto, così dopo tante domande ricevute sui social – “ma come fai a guidare?” – ho pubblicato un video dove lo mostravo. E mi sono accorto io stesso che era tutto semplicissimo: ho indicato l’acceleratore, il freno, e i tasti on e off. Tutto qui. Pensi che gli atleti paralimpici vengano mitizzati? Sì. Non tra di noi, ma dall’esterno accede spesso. E anche la stampa contribuisce a questa narrazione. Parlare del mondo paralimpico, che non è così conosciuto, è sicuramente un bene, ma non lo è cercare di mitizzare ogni singolo individuo. Siamo semplicemente persone che hanno lavorato duro. Accessibilità e barriere, in Italia a che punto siamo per la tua esperienza? Sicuramente ci sono ancora molte cose da fare. A volte mi sono trovato in situazioni in cui anche un hotel diventa inaccessibile per colpa di due gradini. Mi piacerebbe vedere il simbolo del “non accessibile” affiancato alla frase “non accessibile, ma un modo lo troviamo”. Succede che la fatica di prendere un mezzo ti faccia passare la voglia di prenderlo, e non dovrebbe essere così. In altri Paesi le cose funzionano meglio. Dobbiamo migliorare.