Paralimpiadi 2024, Veronica Yoko Plebani: "Il nostro corpo siamo noi"

Ha vissuto per 15 anni in un corpo “conforme”. Fino a quando il 27 aprile 2011 una diagnosi improvvisa – meningite batterica fulminante di tipo C - l’ha trasformato per sempre, cambiando in un attimo anche tutto il resto. Ma Veronica Yoko Plebani, bresciana, 28 anni, non si è mai fermata: oggi è un’atleta paralimpica con tre medaglie d’Oro, cinque Argenti e otto Bronzi all’attivo conquistati tra il 2014 e il 2021. Canoista, snowboarder e triatleta – presto vorrebbe provare anche il surf e l’arrampicata – a soli sette mesi dalle dimissioni dall’ospedale partecipò alla cinque chilometri il giorno prima della Maratona di New York attraversando il traguardo con 28 corridori che la spinsero in carrozzina, prima che muovesse gli ultimi passi da sola. “Per me lo sport è sempre stato un modo per esprimermi. E dopo la malattia è diventato uno strumento per riprendere in mano la vita”, spiega a Sky TG24 un paio di settimane prima di partire per Parigi, destinazione Giochi Paralimpici 2024. Ti stai preparando alla tua quarta Paralimpiade. Cosa ti emoziona di più dell’avventura dei Giochi? Il villaggio paralimpico, che è un luogo inenarrabile. Niente è più emozionante di visualizzarmi in quel posto magico, che esiste solo in quel tempo nel mondo. E non vedo l’ora di condividerlo con tutti. La malattia ha rappresentato uno spartiacque tra la tua vita di prima e quella da atleta pluripremiata. Che percorso è stato? La meningite mi ha portato ad avere delle amputazioni, e mi ha lasciato dei segni sul corpo: è stato un momento complicato e trasformativo da affrontare, soprattutto a 15 anni. Però il percorso che sono riuscita a costruire dopo mi ha portato su strade inattese di cui sono molto felice. Cosa ti ha dato più di tutto la forza e il coraggio per reagire? Mi sono aggrappata alla voglia di uscire da quella stanza di ospedale. Più che coraggio, quello che mi spingeva era il era senso di ribellione a quello che mi stava succedendo: avevo 15 anni e non volevo trascorrere la mia estate in una stanza di ospedale con i miei genitori. Uscire da lì dentro era un obiettivo vitale. Sei ispirazione per migliaia di ragazze. Cosa senti di dire a chi convive con una disabilità e si vergogna del proprio corpo? Personalmente non ho mai provato davvero vergogna per il mio, ho solo dovuto imparare a conoscerlo in questa nuova forma. Quindi quello che consiglio alle persone che si stanno attraversando una fase complicata è proprio trovare uno spazio dove conoscersi, riconoscersi, esplorare tutte le infinite possibilità che il nostro corpo ci regala. Perché il nostro corpo siamo noi. Cosa ti ha aiutato a costruire una convivenza nuova con il tuo? Vivere con una disabilità è una “cosa” da affrontare ogni giorno, quindi si può dire che in qualche modo non è mai risolta. Tuttavia per me è stato importantissimo costruire nuove possibilità attraverso lo sport. La tua disabilità è in parte visibile, ma immagino ci siano azioni nella vita quotidiana complesse, che però le persone non vedono. Sì, le mie difficoltà girano tutte attorno ai miei piedi, che sono entrambi amputati a metà. Sento sempre dolore quando cammino e sto molto tempo “sui piedi”, ho problemi di equilibrio, e non poter camminare a piedi nudi mi disturba. Se di notte mi devo alzare improvvisamente, prima devo mettere le scarpe: certamente c’è di peggio nella vita, ma è una bella seccatura! Più in generale, gli ostacoli sono infiniti… Ma per fortuna lo sono anche i modi di aggirarli. Un mito da sfatare rispetto alla tua quotidianità? Le persone credono che io possa fare tutto perché sono un’atleta paralimpica. In realtà però nella vita di tutti i giorni la mia disabilità esiste, non viene dissolta dal fatto che faccio sport. Per esempio, per tutti è assurdo che io riesca a correre tantissimo e poi faccia fatica a camminare, invece è cosi. La disabilità ha tantissime forme, e a volte è difficile da far capire. Hai provato rabbia per quello che ti è successo? Sì, sia in passato che ancora oggi, quando faccio i conti con le difficoltà che vivo quotidianamente. Però mi rendo anche conto che la gioia è più grande: pensare a che esperienza di vita preziosa mi è stata concessa mi rende felice e orgogliosa di aver scelto di percorrerla. Mondo dello sport e inclusione: in Italia a che punto siamo? L’inclusione nel nostro Paese è passata molto anche attraverso lo sport, e quello paralimpico ha aiutato tantissimo a smuovere a livello culturale e concreto la visione della disabilità in Italia. Però non basta: non può valere solo nello sport. Sei anche un volto del fashion e del beauty. Il mondo della moda è inclusivo? Lo sport sicuramente è più democratico della moda. Credo che comunque in entrambi i mondi ci sia ancora da lavorare su moltissimi fronti: non solo sull’accessibilità, ma anche rispetto ai valori che si vogliono trasmettere. Perché sia la moda che lo sport possono funzionare da grandi amplificatori. Mesi fa su Sky TG24 abbiamo intervistato Giulia Lamarca, che ha raccontato di non sentirsi rappresentata sulle passerelle perché i brand non fanno sfilare modelle in carrozzina. Tu ti ci senti, rappresentata? Attualmente no, non non mi sento veramente rappresentata nella moda, è sempre difficile riconoscersi. Però spero di poter vedere sempre più persone diverse tra loro in passerella, anche diverse da me: per sentirmi rappresentata ho bisogno di diversificazione e completezza. Che rapporto hai con il tuo corpo di giovane donna? Prendere consapevolezza dell’essere donna in una società patriarcale come la nostra mi ha fatto aprire gli occhi su molte cose. Un aspetto che per me è stato - ed è ancora - difficile da decostruire, è quanto abbia cercato di esternare il mio lato maschile e nascondere invece quello femminile, come se fosse più ‘giusto’ essere diversa dallo stereotipo di ragazza che ci viene propinato costantemente. Invece essere ragazze è stupendo, la femminilità è magia. E la sorellanza è tutto. Ti sei mai sentita discriminata come atleta con disabilità? Devo dire che in questo senso non mi sono mai sentita particolarmente discriminata, se non dal fatto che molti luoghi non sono accessibili e quindi non pronti ad accogliermi. Inoltre molte persone che lavorano nel mondo dello sport non sono preparate su quello paralimpico, perché non conoscono la disabilità. E invece come atleta donna? Sì, mi sono sentita molto più discriminata come atleta donna, perché attorno all’essere donna e atleta ruotano una quantità di pregiudizi e ostacoli così consolidati a livello culturale e sistematico che spesso anche noi atlete facciamo fatica anche a riconoscerli. Sesso e disabilità, secondo te perché non se ne parla mai? È un tema che ci fa paura? Non se ne parla perché le persone disabili sono continuamente infantilizzate, e questo ha ripercussioni su molti aspetti della vita, tra cui sicuramente la sessualità. Trovo che lo stupore delle persone nel sentir parlare di desiderio sessuale da parte di una persona disabile sia terribile, mi intristisce sempre molto. Perché invece nella vita delle persone senza disabilità il sesso è assolutamente legittimato. Chiudiamo con una curiosità. Tra il tuo nome e il tuo cognome hai aggiunto “Yoko”: che cosa significa? La cosa più bella è che può assumere diversi significati a seconda di come viene scritto, e avere la libertà di trasformarmi ogni volta è stupendo. Oggi sceglierei ‘figlia del sole’.

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