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I Måneskin in concerto a Roma: "Per noi è un sogno che si realizza"

Musica

Fabrizio Basso

Credit Roberto Panucci

Damiano, Victoria, Ethan e Thomas conquistano lo stadio Olimpico con quasi due ore di rock. LA RECENSIONE

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L’invasione degli ultracorpi è iniziata. Il primo messaggio che arriva dalla galassia dei Måneskin si chiama “Don’t Wanna Sleep” ed è la filosofia di una serata che ha il sapore del derby, ma senza distinzione tra curva Sud e Curva Nord. Damiano ansima quasi dicendo che “fare una concerto allo stadio Olimpico è un sogno che esaudiamo”. Non c’è il tempo di respirare. Per altro quello non lo concede neanche l’aria. Le lacrime che rigano la schiena sono rock. Le luci sembrano una astronave futurista: arancione, bianco, azzurro, colori melange che spaccano l’anima. Damiano sembra uscito dalla passione di Cristo di Mel Gibson, sofferenza e passione in un volto squadrato. “Own My Mind” è una rivoluzione, anzi il ritorno di una rivoluzione che chi da un po’ è negli “anta” aveva già vissuto negli anni Ottanta, tra Madonna e Vivianne Westwood. Ma loro ci mettono l’ansimo della modernità. Non per altro sono la prima realtà italiana che ha “spaccato” all’estero dopo il monopolio del quartetto Ramazzotti-Pausini-Bocelli-Il Volo. Hanno rianimato il punk, certo non quello dei The Stranglers e The Damned, ma quello che fa rima con la parola rivoluzione. Dopo una tirata “Supermodel”, ecco un po’ di grunge italiano con “Le parole lontane” che proprio per la loro lontananza arrivano graffiate da una acustica che sporca la poesia. A compensare ci pensano le luci dei cellulari e quella che Damiano definisce “una ossessione suonare qui e abbiamo ringraziato tante persone ma io non ho mai ringraziato Victoria, Ethan e Thomas. Lo faccio ora con la canzone che mi ha fatto capire che potevamo farcela”. E dedica ai suoi amici, ai tessitori di sogni, ”Iron Sky” di Paolo Nutini in una versione a cappella.

Credit Roberto Panucci

Friggono gli strumenti, la voce si fa più avvolgente. Siamo a “Baby Said” e all’onomatopeica “Bla Bla Bla”. Damiano annuncia una canzone che gli ha portato molto fortuna “ci dicono che è vero che avete fatto successo all’estero, però è una cover…è vero è una cover ma intanto noi l’abbiamo fatta”. Credo che un “Beggin’” così nessuno mai…e per riequilibrare gli animi si va alla lingua madre con “In nome del padre” che è anche un togliersi qualche sassolino dalle scarpe: “Ho scelto di guardare più avanti di ciò che vedo,il mio passato non me lo scordo, non lo rinnego. Colpisci forte, tanto non cado, rimango in piedi”. Il finale è un arroventato assolo di Thomas con la sua indiavolata chitarra. Si procede con “For your love” e poi l’Olimpico si illumina sulle note di “Coraline”: violacee le luci che accarezzano il palco. Damiano, Victoria, Ethan e Thomas rallentano, si avvicinano al momento dell’elevazione: un quadrato di palco diventa il centro del mondo e si colora di rosso per la straniante “Gasoline”, per la quale chiedono il supporto del pubblico (e ovviamente ci sono le fiammate), cui seguono, dopo il tempo di un respiro, la (finta) ballad “Timezone “ e la catartica, anarchica “I wanna be your slave”, con una coda lunghissima, quasi woodstockiana.

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Chiedono spazio per entrare nel cuore dei fan, è il momento acustico. Qualche decennio fa si sarebbe detto dei lenti. Al nostro fianco c’è Marlena che “Torna a casa”, canzone che per me resta uno dei punti più alti della storia dei Måneskin, se non il più alto. Prima di riaccendere il rock c’è ancora tempo per “Vent’anni”, un inno di quattro ventenni che, a nome di una generazione, insinuano il tarlo del dubbio: “C'ho zero da dimostrarvi, non sono come voi che date l'anima al denaro”. Che bella generazione. Molto Kiss “La Fine”, manca solo la lingua fluttuante di Gene Simmons: uno sparviero, un’aquila reale pare planare sul palco. O forse è un figlio 2.0 di “Alien”. Ha comunque un qualcosa di mitologico. Sonorità distorte ci portano nel mondo di “Mark Chapman” che “è vestito come un incubo” su uno sfondo rosseggiante, infernale che “vuole tu sia in pericolo però ti chiama idolo”. Il finale è devastante con, in sequenza, “Mammamia” “Koolo Kids” “The Loneliest” e ancora “I wanna be your dog”. I Måneskin hanno compiuto il loro rito, hanno esaltato il rock. E stasera si replica.

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