Esattamente 30 anni fa il primo concerto nell'Est Europa di Mick Jagger e compagni dopo la caduta del Muro: merito del presidente cecoslovacco Vaclav Havel, grande appassionato di rock
Per oltre vent'anni a Praga il rock era entrato di soppiatto, clandestinamente, spesso importato dall'Ungheria da dove provenivano migliaia di musicassette pirata con le registrazioni dei programmi radiofonici occidentali, soprattutto inglesi, che trasmettevano quella musica vietata e fastidiosa come il fumo negli occhi per gli alti papaveri del regime comunista cecoslovacco. Il giornalista del New York Times Eduard Freisler, nato nel 1974, ha raccontato come suo padre avesse sopportato il dolore e il silenzio della dittatura ascoltando a ripetizione il bootleg di Let's spend the night together: lo stesso Eduard aveva consumato la cassetta dell'unica canzone degli Stones che aveva avuto modo di conoscere, una certa Satisfaction. C'erano anche loro, padre e figlio, la notte del 18 agosto 1990 allo stadio Strahov di Praga, sotto una pioggia torrenziale, per il primo concerto rock della storia della Cecoslovacchia.
In soli 17 giorni
Deus ex machina dell'intera operazione era stato Vaclav Havel, primo presidente della Cecoslovacchia “liberata” e grande appassionato di musica rock: aveva proposto a Frank Zappa il Ministero della Cultura, ad aprile era stato intervistato da Lou Reed per l'edizione americana di Rolling Stone e durante un viaggio a New York aveva visitato il club CBGB, tempio della musica punk nel Lower East Side di Manhattan. I primi contatti con gli Stones erano avvenuti ad aprile, ma il contratto fu firmato materialmente, a Vienna, solo il 1° agosto: voleva dire che c'erano appena diciassette giorni di tempo per passare dalla teoria alla pratica dell'allestimento di un mega-concerto rock in un posto dove non se n'erano mai fatti. Fu possibile grazie all'aiuto di due sponsor (il colosso dell'elettronica TDK e le birre Anheuser-Busch) e una ventina di aziende locali; fu possibile soprattutto grazie alla regia della coppia presidenziale, Havel e sua moglie Olga, alla cui fondazione gli Stones devolsero l'intero incasso della serata. Incuranti della scaramanzia, gli Stones erano arrivati a Praga il giorno prima, di venerdì 17, provenienti dalla Germania sull'aereo personale di Havel, sistemati all'Hotel Palace e trattati con ogni favore: i loro desiderata per le camere d'albergo furono tutti esauditi, a cominciare dalle tende nere che avevano richiesto alle finestre.
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22 anni dopo
18 agosto 1990, un sabato sera. La data non era casuale, quasi in coincidenza con il 22° anniversario del 20 agosto 1968, la notte in cui i sovietici erano entrati in Cecoslovacchia con i carri armati, ponendo brutalmente fine alla Primavera di Praga. Il lunedì e il martedì precedente gli Stones avevano suonato a Berlino Est, già “battezzata” un mese prima da The Wall di Roger Waters, ma non erano riusciti a organizzare ulteriori date nelle altre capitali dell'Est Europa. Era la seconda volta che Mick Jagger e compagni si avventuravano oltre cortina, ventitré anni dopo la prima: il 13 aprile 1967 si erano esibiti in un mitologico concerto al Palazzo della Cultura di Varsavia, un concerto fortemente osteggiato dalle autorità britanniche (che temevano fosse un tentativo sovietico di sdoganare il comunismo presso i giovani occidentali) e passato alla storia soprattutto per i violenti scontri all'esterno del palazzo, con la polizia polacca che fece abbondante uso di manganelli e lacrimogeni per tenere a bada gli oltre duemila fan senza biglietto.
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“Tanks are rolling out, the Stones are rolling in” era lo slogan che aveva invaso tutta Praga nei giorni precedenti, mentre la famosa linguaccia campeggiava su una collina sormontante la città vecchia, laddove per anni c'era stata una minacciosa statua di Stalin. E il simbolo compariva anche sui giubbotti di pelle regalati dagli Stones a Vaclav Havel, incontrato con grande dispiego di telecamere nel pomeriggio, al Castello di Hradcany, residenza del Capo di Stato. Lui aveva ricambiato, raccontando di come solamente un loro disco avesse fatto ufficialmente breccia a Praga (Black and Blue, 1970), ma anche di come le loro canzoni clandestine avessero rafforzato la resistenza alla dittatura, e regalando alla band alcuni preziosi manufatti in cristallo di Boemia.
Lo show
La pioggia non rallentò affatto l'ondata popolare che aveva accettato di buon grado di pagare le 250 corone di biglietto: circa 10 dollari, prezzo non così banale per un popolo appena uscito da vent'anni di povertà. Il conto ufficiale parlò di 107 mila spettatori, (svariate migliaia provenienti dalla vicina Ungheria), in uno stadio gigantesco che poteva contenerle oltre il doppio, utilizzato fin lì solo per parate militari o sporadiche esibizioni di ginnastica da regime. Si contavano sulle dita di una mano gli artisti che da Ovest erano riusciti a forzare il muro: Stevie Wonder, Joan Baez e pochissimi altri, là dove erano banditi i suoni ruvidi, aggressivi, irresistibilmente sexy delle chitarre elettriche, che facevano a cazzotti con i suoni ovattati e rassicuranti della musica di regime (i comunisti aborrivano sopra ogni cosa il sassofono, sostenendo che il suo inventore, il belga Adolphe Sax, fosse uno sporco imperialista).
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L'introduzione spettò al chitarrista Vladimir Misik, frontman degli Etc..., una delle band che più aveva sofferto il clima claustrofobico della dittatura. Poi i Dan Reed Network, un gruppo funk rock che aveva aperto tutti i concerti degli Stones nel tour Urban Jungle, di cui la tappa cecoslovacca rappresentava la ciliegina finale. E finalmente i Rolling Stones, che come d'abitudine non si risparmiarono neanche un po', dando vita a uno show di due ore e venti minuti con ventitré pezzi in scaletta: tutti i più grandi successi e un crescendo finale impressionante, Sympathy for the Devil, Street Fighting Man, Gimme Shelter, It's Only Rock 'n Roll (But I Like It), Brown Sugar, Jumpin' Jack Flash e il gran finale con Satisfaction. I 107 mila presenti condividono tutti insieme lo stesso meraviglioso ricordo: l'attesa lunga ore, tipica di ogni grande concerto, a cui nessuno di loro era preparato; l'acqua caduta dal cielo, persino il timore che non fosse vero niente. Ma quando intorno alle 21:30 le luci si abbassarono e nell'aria si diffuse un rumore di percussioni, il sogno diventò realtà. E quando una voce di donna, anonima ma mai così tanto portavoce del pensiero collettivo, urlò “Oh mio Dio, sta succedendo davvero!”, si riferiva a qualcosa di più di un semplice concerto rock. E partì Start me up.