I dialoghi riportano alla mente quelli di Pulp Fiction. La sezione è quella giusta (Next). L'attrice anche (Gaby Hoffman). "Little Death" forse non conquisterà mai il botteghino, ma lo spirito del "vero" Sundance batte forte nel film di Jack Begert
Quelli che in America chiamano i "teen years" (dai 13 ai 19) sono gli anni dell'adolescenza. Poi c'è la gioventù, che ormai sempre di più finisce per abbracciare non un solo decennio (i 20s) ma quasi due. Quando si arriva a 40, però - ed è il compleanno che il Sundance Film Festival ha festeggiato quest'anno - difficile sfuggire all'idea che si è giunti a una fase adulta, più matura. Certo, il festival di Park City continua a spendere la parola "indipendente" a ogni occasione, così come continua a organizzare proiezioni di mezzanotte (l'orario che ha sancito la nascita dei cult-movies, in tutta America). E proprio "Midnight", non a caso, è anche il nome della sezione che continua a proporre le storie meno omologate, dall'horror allo splatter fino ad arrivare al confine col trash. È qui - e in un'altra sezione il cui nome è tutt'altro che casuale, Next - che per alcuni batte ancora forte il vero spirito del Sundance, quello che un po' si ribella all'essere diventato adulto e forse - parola accolta con ribrezzo a Park City e dintorni - un po' mainstream.
L'evoluzione del Sundance e della società
Che poi: è cambiato il Sundance o è cambiata la società (americana e non solo)? Perché il festival di Robert Redford è sempre stato paladino delle diversità, ha sempre dato voce alle minoranze e ha sempre portato sul grande schermo le storie che ieri quasi nessuno osava raccontare. Forse, vien da dire, proprio il suo successo (e un contemporaneo progredire dei costumi) oggi ha reso più facile per altri raccontarle, e per la società accettarle. Certo è innegabile che un certo allineamento al politically correct ha raggiunto anche le strade innevate di Park City, dai video che prima di ogni proiezione ricordano e onorano le tribù indiane che originariamente abitavano i territori su cui oggi si svolge il festival (spazzate via senza troppi complimenti) fino ad arrivare perfino ai premi - almeno quelli del pubblico - che sempre più tendono a consacrare "feel good stories" (pur di straordinaria fattura, come nei casi di "Daughters" e "Ibelin" in questa edizione).
Little Death, i dialoghi tarantiniani
Per questo però ogni anno c'è anche la tentazione di inviduare uno o più titoli che paiono restare più fedeli a quell'identikit independente & DIY (Do It Yourself) che per quattro decenni ha indentificato il Sundance. Quest'anno lo abbiamo trovato in "Little Death", pellicola che ha vinto l'Innovator Award (il premio dell'innovazione) nella sezione Next. Sono due storie in una, all'apparenza completamente diverse, con una singola scena che fa da cesura, separandole e tenendole assieme allo stesso tempo. Ma non è tanto la storia (o le storie) a piacere, di "Little Death": sono i personaggi e i dialoghi, strambi e divertenti. Come questo.
"Quello che sto dicendo è che non puoi fare un brunch se lo fai alle 9 del mattino".
"Se vuoi che lo sia, anche quello è un brunch. Non è così difficile".
"No. Il brunch è una colazione servita a pranzo. Per definizione".
"Se ha l'atmosfera di un brunch è un brunch, con i suoi mimosa e i french toast. È l'atmosfera che conta"
(Se vi ricorda le patatine fritte e la maionese in Olanda di "Pulp Fiction", giova ricordare che Tarantino ha pur sempre esordito al Sundance nel 1992, con "Le Iene").
Oppure questo, dove nel mirino finiscono pandemie, indottrinamento dall'alto e psicosi colletive.
"Vogliono farci assumere le proteine dai grilli, fratello. Ve lo dico io, cazzo: aspettate di vedere quando si inventeranno la prossima gran balla da raccontare alle masse. Una falsa carestia. E di colpo, senza neppure accorgersene, ci ritroveremo tutti a mangiare cimici"
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Jack Begert, un cineata che viene dai videoclip
Jack Begert, il regista di "Little Death", viene dal mondo dei videoclip e si vede. Mette Los Angeles sullo sfondo (non potrebbe essere altrimenti: il suo film parla di sogni e i sogni si vivono ancora all'ombra della scritta Hollywood) e si diverte a raccontare una storia tragicomica e dolceamara. Il cast è azzeccatissimo e Gaby Hoffman - più ancora di Kristen Stewart, sulla bocca di tutti per la sua apparizione in "Love lies bleeding", non a caso nella sezione "Midnight" - è la vera eroina indie che al Sundance non può mancare. Neppure nel 2024.