Ospite di Stories, il ciclo di interviste dedicate al mondo dello spettacolo, lo scrittore racconta il valore, ma anche la solitudine, di chi ha combattuto le mafie
Roberto Saviano è il protagonista del nuovo appuntamento di Stories, il ciclo di interviste dedicate al mondo dello spettacolo di Sky TG24, con “Roberto Saviano – Il coraggio di scegliere”. Un colloquio con il vicedirettore di Sky TG24 Omar Schillaci sul valore, ma anche la solitudine, di chi ha combattuto le mafie, in onda Sky TG24, anche su Sky Arte venerdì 27 novembre alle 16 e disponibile On Demand.
“Le mani sul mondo”
Lo scrittore ha realizzato un ciclo di podcast su Audible, “Le mani sul mondo”, in cui racconta le vite dei grandi boss della mafia e della criminalità organizzata, come Totò Riina e Pablo Escobar, ma anche le storie di chi quelle mani, pronte a ghermire il mondo, ha provato a fermarle: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, don Peppe Diana (VIDEO), Anna Politkovskaja. Il filo rosso che unisce queste storie è quello del coraggio: Il coraggio - spiega Saviano – non è assenza di paura, il coraggio non è nemmeno imprudenza. Il coraggio è una scelta, è scegliere perché, se non decidi di scegliere, qualsiasi altra scelta perde di senso. Il coraggio è decidere da che parte stare. Se non lo fai tutto perde di senso, di significato. Il coraggio non te lo puoi dare, racconta Manzoni nella descrizione di don Abbondio, o ci nasci o non lo puoi apprendere. Negli anni ho spesso ragionato su questo, non so se sia proprio così. Ho visto molte persone non avere l’indole dell’ingaggio, della scelta, e poi invece trovare la forza del coraggio, dello scegliere indipendentemente dalle conseguenze. Ecco cos’è il coraggio per me, scegliere, andare incontro alla propria scelta e raccogliere su di sé la responsabilità. Il coraggio non ha nulla a che fare con la temerarietà, il coraggio è scegliere, il coraggio è essere fedeli a se stessi.
la battaglia di giovanni falcone
La scelta di combattere la criminalità si accompagna spesso a una profonda solitudine, come, racconta Saviano, nel caso del giudice Falcone: Falcone nell’immaginario di tutti, anche delle nuove generazioni, è l’eroe che ha combattuto cosa nostra avendo come orizzonte la possibilità di liberare il Paese da questo cancro. In realtà Giovanni Falcone ha fatto questa battaglia in grande solitudine. Tutta la solidarietà, l’amore che è stato dato a Giovanni Falcone post mortem non lo ha avuto in vita, o ne ha avuto molto poco. Non dobbiamo pensare che si tratti di una solitudine dovuta alla potenza della mafia. La solitudine è dovuta all’invidia, è scritto anche in una sentenza della Cassazione. L’invidia dei suoi colleghi, non tutti ovviamente. Il fastidio di un Paese, l’Italia, e un territorio, la Sicilia, che vedeva in Falcone una persona che si metteva continuamente in mostra, che andava in televisione, che portava la barba lunga, lui stesso lo raccontava, la ‘barba comunista’. Lo chiamavano Falcon Crest, guitto televisivo. Una vita di continui attacchi.
Una solitudine che, talvolta, prosegue anche dopo la morte, come è accaduto per l’omicidio di don Diana: Don Peppe – dice lo scrittore - fu ucciso il giorno del suo onomastico. Gli spararono in faccia, in chiesa. Il mondo si accorse che esisteva la camorra Casalese in Campania, di cui si parlava pochissimo, solo localmente e tra addetti ai lavori. Una settimana dopo il suo funerale, che fu molto sentito, tanto che un intero paese espose lenzuola bianche e scout da tutta Italia arrivarono per celebrare la sua vita, Papa Giovanni Paolo II citò don Peppe. Sembrava esserci un moto di vicinanza alla vita di questo prete, un moto di indignazione e di ribellione verso quello che era stato fatto. Invece cade tutto dopo poco tempo e si va nella delegittimazione più totale: ‘don Peppe toccava le ragazze, don Peppe conservava delle armi di un clan rivale, don Peppe non ha celebrato un funerale ed è stato ammazzato per questo, non centra niente l’anticamorra, non c’entra niente la sua posizione’.
saviano: "l'ultima volta in cui mi sono sentito solo"
Saviano racconta poi di sentirsi anch’esso solo a volte, nel combattere la sua battaglia di denuncia: L’ultima volta in cui mi sono sentito solo – spiega - è stata qualche giorno fa. Ero in aula, avevo di fronte Francesco Bidognetti, boss dei Casalesi accusato dall’antimafia di minacce nei confronti miei, di Rosa Capacchione e altri, e in quell’aula eravamo soli. Io e gli uomini della mia scorta, i carabinieri. Soli. C’era il rappresentante della FNSI, ma non c’era nessun altro. Lì ti senti solo perché in fondo prevale anche lì la diffidenza. Probabilmente il fatto che io sia in queste condizioni da molti anni fa dire ‘beh, ma se davvero avessi rischiato saresti già morto. Come fa un condannato a vivere così tanto, quindici anni? Se il pericolo fosse esistente saresti dovuto morire almeno dieci anni fa'. È un pensiero vero, che attraversa molti e attraversa anche me stesso. Quando mi sento in colpa per essere vivo capisco di essere solo, a un certo punto ti senti un impostore perché stai vivendo (VIDEO).