A indicarlo è un nuovo studio, presentato al Congresso Europeo di Medicina d’Emergenza, che ha analizzato le cartelle cliniche di 714 pazienti adulti ricoverati al pronto soccorso con sepsi, riuscendo a identificare diversi fattori di rischio associati a questa condizione
La metà dei pazienti ricoverati in un reparto di medicina d’urgenza con sepsi - una risposta sregolata e sproporzionata dell’organismo a un'infezione, con danno a carico dei tessuti e degli organi stessi -, muore entro due anni. A indicarlo è un nuovo studio, presentato al Congresso Europeo di Medicina d’Emergenza, guidato da Finn E. Nielsen, scienziato senior del Dipartimento di Epidemiologia Clinica dell’Ospedale Universitario di Aarhus, in Danimarca. La ricerca ha analizzato i decessi durante un lungo periodo di follow-up in uno studio prospettico su 714 pazienti adulti ricoverati al pronto soccorso con sepsi, identificando diversi fattori di rischio associati a questa condizione.
Lacune nelle conoscenze sugli esiti della sepsi
In un rapporto del 2020, l’Organizzazione mondiale della sanità ha sottolineato le limitazioni delle attuali conoscenze sugli esiti della sepsi, una condizione che si manifesta con febbre elevata e altri sintomi come brividi, respiro affannoso, fiato corto e confusione mentale. Se non diagnosticata e trattata in modo adeguato, la sepsi può evolvere in shock, insufficienza multi-organo e persino risultare fatale. A causa di queste lacune, l'Oms ha richiesto studi prospettici per indagare sugli esiti a lungo termine dei pazienti affetti da sepsi. Richiesta a cui ha risposto Nielsen, che già nel 2017 aveva istituito il gruppo di ricerca sulla sepsi nel suo dipartimento di emergenza.
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Lo studio nel dettaglio
Lo studio ha coinvolto 2.110 pazienti con sospetta infezione ricoverati tra ottobre 2017 e fine marzo 2018, di cui 714 hanno sviluppato sepsi. “Il nostro studio si è basato su un database della sepsi, che ha fornito informazioni preziose basate sui dati dei pazienti raccolti in modo prospettico. A differenza dei dati di registro di routine spesso utilizzati, questo approccio ha ridotto al minimo gli errori e ha permesso di ottenere informazioni più accurate e dettagliate sugli effetti della sepsi”, ha riferito il coordinatore del team di ricerca.
I risultati
I risultati mostrano che, dopo una media di due anni, 361 pazienti con sepsi (il 50,6% del campione) sono deceduti per varie cause. “Abbiamo scoperto che alcuni fattori aumentano il rischio di morte dopo la sepsi, tra cui, non a caso, l’età avanzata. Inoltre, condizioni come demenza, malattie cardiache, cancro e un precedente ricovero per sepsi negli ultimi sei mesi prima del ricovero aumentavano il rischio di morte durante un periodo di follow-up mediano di due anni”, ha spiegato Nielsen. Nello specifico, l’analisi ha rilevato che l'età avanzata ha aumentato il rischio di morte del campione del 4% per ogni anno di vita aggiuntivo. Inoltre, la presenza di una storia di cancro ha più che raddoppiato il rischio di mortalità (121%); mentre altre condizioni come la cardiopatia ischemica e la demenza hanno aumentato il rischio rispettivamente del 39% e del 90%. Tra i fattori di rischio identificati, si è infine notato che un precedente ricovero per sepsi nei sei mesi precedenti ha aumentato il rischio di mortalità del 48%. “Il nostro studio identifica diversi fattori di rischio che dovrebbero essere considerati prioritari dal personale medico per l’informazione, l’assistenza e i controlli di follow-up. Riteniamo che queste conoscenze siano utili sia per i medici che per i ricercatori nel campo della medicina per acuti. Riconoscere che la sepsi è una malattia grave con un’alta mortalità è fondamentale”, ha aggiunto Nielsen, sottolineando che saranno necessari ulteriori studi più ampi e prospettici per validare i risultati emersi. “Non siamo stati in grado di costruire un modello complessivo adatto a prevedere la mortalità nella pratica clinica. Sono necessari studi prospettici sull’effetto di altri fattori non esaminati nel nostro studio, tra cui le varie complicazioni che possono insorgere dopo il ricovero e dopo la dimissione. Presenteremo dati supplementari alla conferenza”, ha concluso Nielsen.
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