Viviamo in una maschiocrazia? Cosa dicono i dati

Anche se le prossime elezioni statunitensi potrebbero cambiare gli equilibri mondiali, è innegabile: viviamo in una “maschiocrazia”. È questa la tesi dietro al libro dall’omonimo titolo a cura di Emanuela Griglié e Guido Romeo. Quando dobbiamo scegliere chi ci rappresenta in politica, tendiamo a essere più maschilisti e conservatori, sostengono infatti gli autori. Partendo dai dati, analizzano un cambiamento globale, evidente anche nell’avanzata di Kamala Harris nei sondaggi: la parità di genere migliora, ma le resistenze sono ancora moltissime. Un’immagine eloquente, quella della copertina di Maschiocrazia: una foto del 1974 che ritrae il consiglio di amministrazione della Associated Press, composto da 23 uomini, con l'eccezione di Katherine Graham, leggendaria direttrice del Washington Post durante il periodo del Watergate. Sebbene il ruolo di Graham fosse di grande rilievo, non si può ignorare che fosse lì anche in virtù del suo legame familiare con il giornale, di proprietà del padre. Una rappresentazione efficace dell’attuale configurazione del potere, dominata da figure maschili. Nel loro nuovo saggio, che segue “Per soli uomini” in cui analizzavano un mondo “a taglia unica” — quella di un “maschio standard” — , Griglié e Romeo sostengono che anche quando le donne riescono a emergere in posizioni di rilievo, spesso questo non si accompagna a un vero cambiamento nelle dinamiche del potere. Perché la leadership femminile, quando è presente, rimane vincolata a modelli maschili, limitando l’abbattimento del cosiddetto “soffitto di cristallo”, una barriera invisibile ma reale che impedisce alle donne di raggiungere le posizioni di vertice, pur avendo le competenze e l’esperienza necessarie. Prendiamo l’Italia: uscito Gennaro Sangiuliano dal Ministero della Cultura, entra Alessandro Giuli. Non si sposta il bilancio di genere dei ministri del governo di Giorgia Meloni, e a due anni dalle elezioni, nonostante la prima presidente del Consiglio donna, i dati dicono che nel nostro Paese la rappresentanza politica, ma anche quella economica, è quasi esclusivamente maschile. Possiamo contare infatti solo 6 ministre su 24 e, in totale, tra camere e governo le donne rappresentano il 33,6% degli esponenti politici. La Fondazione Openpolis, che cura il progetto Open Parlamento, ha elaborato l’indice di forza, un indicatore per verificare quanto la presenza femminile abbia una rilevanza nelle decisioni che contano: la “forza” delle donne sulla base degli incarichi ricoperti nelle nostre istituzioni è solo del 27,9%. In realtà, la responsabilità non è solo dell'attuale esecutivo: negli ultimi anni il numero di donne in posizioni apicali nella pubblica amministrazione è diminuito di 11 punti percentuali dal 2019, passando dal 41,4% al 30,3%. Con Meloni però le donne alla guida dei dipartimenti e degli uffici di palazzo Chigi sono passate da 15 a 13. E il ministero della cultura, che nel 2022 aveva ben cinque direttrici generali, oggi ne conta solo due. E nel resto del mondo? Secondo i dati Eurostat più recenti, nel 2022 sono donne solo il 32,7% dei membri di tutti i governi dei paesi Ue, meglio della media mondiale . Esistono però nazioni più virtuose, che registrano punteggi superiori al 50% secondo l’indice di parità di genere in politica espresso dal Global Gender Gap Report 2024: sono Islanda , Norvegia , Finlandia , Nuova Zelanda , Nicaragua , Germania , Bangladesh , Mozambico , Sudafrica , Irlanda , Svezia e Cile . Restando in Europa, il 38,5% dei seggi nel parlamento europeo è occupato da donne, un dato non particolarmente elevato e in lieve diminuzione rispetto al 39,8% registrato alla fine dello scorso mandato. Le eurodeputate italiane rappresentano il 41% degli eletti dal nostro Paese, 29 donne su 76 seggi, pari circa al 38% del totale. Come cambiare le statistiche La parità avanza, ma secondo gli autori di Maschiocrazia è necessaria una profonda revisione delle dinamiche di potere, che non si limiti alla semplice nomina di donne in posizioni di vertice, ma che riveda il concetto stesso di leadership. Esempi positivi si ritrovano nelle amministrazioni locali di città come Barcellona e Parigi, dove le donne hanno dimostrato di poter esercitare un tipo di leadership più inclusivo e meno piramidale. Dati incoraggianti arrivano dal World Economic Forum: negli ultimi 50 anni, quasi la metà delle economie monitorate dal Global Gender Gap Index ha avuto almeno una donna in una carica politica di vertice. La parità di genere nella rappresentanza parlamentare ha raggiunto un record del 33% nel 2024, quasi raddoppiando rispetto al 2006, quando era al 18,8%, anche se siamo ancora lontani dal 50%. Perché? Potrebbe spiegarlo l’indice di Reykjavik, un indicatore citato nel libro che valuta gli atteggiamenti verso le donne leader nei paesi del G7, per cui negli ultimi cinque anni, nonostante movimenti come #MeToo e l'impatto della pandemia, l’accettazione delle donne in posizioni di potere non è aumentata significativamente. In alcuni paesi, come la Germania, dove Angela Merkel ha governato per molti anni, solo il 41% degli intervistati si dichiara a proprio agio con l'idea di una donna a capo del governo. Ciò che risulta particolarmente preoccupante, notano gli autori, è che questi atteggiamenti persistono anche tra i giovani, che sembrano percepire la parità di genere come già raggiunta, e dunque non sentono il bisogno di ulteriori progressi in questo campo. Guardando agli Stati Uniti, non si può non fare un paragone con l'imminente elezione dove Donald Trump sfida di nuovo una donna, come nel 2016: allora Hillary Clinton, nonostante avesse potuto contare un sostegno maggioritario da parte delle donne nere, ha visto una parte dell’elettorato voltarle le spalle: le donne bianche, eterosessuali e sposate hanno preferito votare per Trump, in parte influenzate dalla pressione sociale esercitata dai loro contesti familiari e professionali. Una Maschiocrazia che si esprime anche in famiglia, dunque, e che andrebbe rivoluzionata a partire dal modo in cui si giudica una leadership al femminile, oggi ancora vista con diffidenza. Un doppio standard giudicante che rende particolarmente difficile per le donne affermarsi in politica, dimostrando quanto sia ancora lungo il cammino verso una vera equità di genere nel potere.