Il Pd e il campo largo al suo interno

Una specie di coazione a ripetere. Non di natura psicologica, ma politica. Il meccanismo però è lo stesso: replicare nel presente modelli e comportamenti subiti nella fase di formazione. E, in qualche modo, esportarli verso l’ambiente circostante. È una tentazione forte interpretare in questa chiave il modo in cui si muove il Pd di Elly Schlein. La prima missione di Schlein Dalla sua investitura la segretaria ha sentito come missione più importante, quella in cui tutte le altre erano ricomprese, la ricostituzione del cosiddetto “campo largo”. L’inaspettata vittoria nel voto popolare era arrivata con questo significato. Un mandato implicito. Quel voto premiava una figura più a sinistra del suo predecessore, che potesse trovare maggiori affinità con potenziali alleati che presidiavano quell’area: chi tradizionalmente, come Sinistra Italiana e – tutto sommato – i Verdi; chi con qualche sbandata passata, ma che il nuovo corso pareva far dimenticare, come i Cinquestelle. Il senso della missione appariva rafforzato da due elementi, fondamentali: al governo si era insediato un esecutivo che in molti avevano definito – e continuano a definire – il più a destra della storia della Repubblica. E questo governo era destinato – e, tutto sommato, ancora sembra destinato – a durare per l’intero arco della legislatura. La missione di Schlein era sì difficile, ma politicamente obbligata e, soprattutto aveva – avrebbe – tanto tempo a disposizione. La segretaria mostrò subito una postura che lei stessa definì “testardamente unitaria”. Con alterni risultati, che al momento rendono l’approdo finale dell’operazione assai incerto. Si potrebbe aggiungere che in questi mesi si è tanto parlato della necessità di costruire contenuti e piattaforme comuni, ma ci si è preoccupati più del perimetro del campo largo e del dilemma se al suo interno dovessero entrare le controverse figure – per la sinistra ma anche tra di loro – dei centristi Renzi e Calenda. La sindrome del Nazareno Compito ingrato, che ha consumato gran parte delle energie di Elly. Inevitabile però, perché quasi subito c’erano prove elettorali il cui esito è stato di certo, almeno in parte, determinato da quanto fosse largo il campo delle alleanze di cui il Pd era e voleva essere il centro di gravità. Il problema è che la sindrome del campo largo – tante voci diverse su questioni dirimenti e scarsi tentativi e volontà di arrivare a una sintesi – sembra interessare sempre di più il Pd al suo interno: un campo largo al Nazareno. Il modello che si tende a imitare, magari inconsciamente. La coazione a ripetere. L’anima riformista e quella socialista del Pd convivono senza sintesi o quasi. Le due anime del partito hanno posizioni diverse sulla guerra in Ucraina e vari distinguo esistono sulla polveriera in Medio Oriente e, in parte, sulla transizione green. Tutte questioni non di second’ordine. Eppure, forse consolate dal ruolo di opposizione in Italia, non sembra che le due anime abbiano particolare preoccupazione per queste diversità. Tanto che le esportano con disinvoltura in ambito europeo, nel gruppo dei socialisti. Il modello da esportazione Il Pd ha votato in ordine sparso sulla risoluzione per gli aiuti all’Ucraina, in dissenso con sé stesso ma anche con il resto dei socialisti e democratici. E in Europa il partito di Schlein non ha i tempi lunghi dell’opposizione per trovare una sintesi politica, perché è in maggioranza. Sosteneva la prima commissione von der Leyen e sostiene – a meno di cataclismi politici a Bruxelles – la seconda, di prossimo insediamento. Forse è urgente che la segretaria applichi la sua attitudine “testardamente unitaria” nel campo interno al suo Pd. Il tempo a disposizione sembra non essere così tanto, prima che ci siano conseguenze importanti.

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