Ucraina: le armi italiane e lo scenario mutato. Cosa aspettarsi dal "prossimo decreto"?

Dal 2022, le decisioni del governo e del Parlamento sull’invio di armi a sostegno della difesa e della resistenza ucraina all’aggressione russa sono sempre stati momenti delicati per la politica e per le istituzioni italiane. Nonostante il sostegno largo delle assemblee parlamentari da parte di tutta la maggioranza e di buona parte delle opposizioni, ampie discussioni ci sono state in ordine – per esempio - al tipo di armamenti che l’Italia metteva a disposizione del governo di Kiev. Informazione non pubblica, che il governo comunica al Comitato parlamentare per la sicurezza in audizioni il cui contenuto è stato, finora, secretato. Nella scelta tra sicurezza del Paese e opinione pubblica informata, la sicurezza ha avuto la meglio. Dubbi però ce ne sono, cresciuti col passare del tempo e i ripetuti invii di armi. Dubbi che anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha espresso a inizio estate: sull’opportunità di mantenere il segreto potrebbe esserci un ripensamento. I Paesi più impegnati sul fronte dell’invio di armi a Kiev – Gran Bretagna, Germania e Francia – hanno sempre reso pubblico l’elenco delle forniture. Dubbi sono sorti pure sull’opportunità stessa degli invii, dubbi nutriti dall’articolo 11 della nostra Costituzione – il famoso “l’Italia ripudia la guerra”, spesso interpretato in maniera strumentalmente restrittiva – e da un richiamo al pacifismo come valore tradizionale di una parte della sinistra e fondativo anche per la pur breve storia del Movimento 5 stelle. Dall’altra parte, nella maggioranza, è stato evidente lo scetticismo della Lega. Molti lo hanno legato alle posizioni filo Putin, parte integrante della proposta politica del Carroccio fino a qualche anno fa. E altri lo riferiscono al pensiero – semplice e pragmatico, tipico del Carroccio – che le guerre non si fermano con le armi ma si fermano, piuttosto, fermando le armi. La convinzione comune Tutte queste discussioni, questi distinguo, sono nati e cresciuti sulla base di una convinzione comune e indiscussa: le armi che l’Italia inviava dovevano avere utilizzo esclusivamente difensivo. “Non siamo in guerra con la Russia” era la formula usata continuamente dai nostri ministri di Esteri e Difesa, indirizzata all’opinione pubblica interna e – non secondario - a quella internazionale. Parole uguali, significati diversi Bisogna fare attenzione alle parole. Che talvolta cambiano, ma hanno lo stesso significato. E altre volte restano le stesse, ma indicano cose diverse. Ed è quest’ultimo il caso che ci riguarda: l’espressione “utilizzo esclusivamente difensivo” è rimasta; il significato, invece, è cambiato almeno tre volte. Soprattutto sotto la spinta, e l’estrema necessità e urgenza in cui si trova, ormai da trenta mesi, il governo ucraino. Il primo significato di “utilizzo esclusivamente difensivo” era: le armi che inviate saranno usate in territorio Ucraino per respingere gli aggressori russi in territorio ucraino. Il secondo, in vigore da qualche mese, è stato: le armi che inviate saranno usate dal territorio ucraino anche verso il territorio russo confinante dotato di installazioni militari, da dove partono le aggressioni. Il terzo, sostenuto da qualche giorno, è: gli armamenti possono essere usati dall’Ucraina, Paese aggredito - per contrattaccare su porzioni di territorio russo e mantenerne il controllo. Anche il terzo significato, in effetti, è ritenuto “difensivo” dai codici di guerra. Ma è chiaro che, se l’obiettivo è quello di evitare un’escalation catastrofica del conflitto, adottare quest’ultimo significato di “utilizzo esclusivamente difensivo” fa una grande differenza. La differenza sottovalutata Che sembra essere sottovalutata. Sempre più spesso e sempre più autorevolmente. L’Alto rappresentante europeo per la politica estera, Josep Borrell, ha recentemente dichiarato che “va considerato il rischio di escalation, ma va bilanciato con la necessità degli ucraini di difendersi”. Affermazione legittima, ma quantomeno discutibile. Molti degli Stati membri che Borrell dovrebbe rappresentare hanno sempre fatto dichiarazioni molto più sfumate su questo, lasciando anzi intendere che evitare l’escalation era valore non negoziabile. Vero che la Germania vede usare le sue armi nella operazione militare ucraina in territorio russo. Vero che la Gran Bretagna ha praticamente ammesso di aver autorizzato anche l’utilizzo dei suoi armamenti. Vero che la Francia, nelle parole del presidente Macron, ha più volte ventilato l’ipotesi di inviare sue truppe in Ucraina. Ma gli altri paesi europei hanno assunto posizioni molto più sfumate. Tra questi l’Italia: “Non siamo in guerra con la Russia”, appunto. In guerra con l’Occidente Invece la Russia si sente in guerra con l’Occidente. Un Occidente ideale e indefinito, comunque nemico. Un Occidente di cui l’Italia non può non far parte. Un’appartenenza rivendicata con convinzione da Giorgia Meloni fin dall’inizio della sua esperienza di governo e che ha avuto parte importante nella credibilità in politica estera che qualcuno aveva scommesso essere il terreno più difficile per l’esecutivo più a destra della storia repubblicana. Tutto più complicato ma… Ora però, in questo scenario cambiato, sarà tutto più complicato. Compresi, forse soprattutto, i prossimi invii di armi all’Ucraina. Difficile pensare di secretare ancora l’elenco degli armamenti. Difficile non prendere una posizione netta sul significato di “uso esclusivamente difensivo”. Difficile – se non impossibile - sostenere con certezza che le armi italiane non saranno usate in territorio russo. Difficile che Salvini si rimangi il suo “niente armi contro la Russia oppure non votiamo il prossimo decreto”. A tutte queste difficoltà che riguarderanno “il prossimo decreto”, però, potrebbe esserci una soluzione, diciamo così, radicale: che “il prossimo decreto” non ci sia. Perché, sono parole di Guido Crosetto, “l’Italia ha già dato ciò che poteva dare”. In sé, un problema. Ma anche la via d’uscita da un passaggio ad altissimo rischio per il governo.