Esce oggi per Baldini+Castoldi, il romanzo d’esordio del giornalista, capace di raccontare con ironia e leggerezza la perdita dell’innocenza, la ribellione e i tentativi di riscatto di un bambino diventato adulto troppo in fretta. Pubblichiamo un estratto
Alla fine Padre Alfio la prese meno male di quanto avessi immaginato. Tutto sommato non gliene fregava più di tanto della Polonia. E neanche dell’Italia. Disse soltanto che non capiva tutta questa gioia per una partita, per un pallone, per il calcio.
«Tonì, quindi l’Italia solo un’altra volta deve giocare?»
«Sì, la finalissima, domani sera alle otto.»
«Oh, meno male. Così finisce ’sta camurria. Stava cadendo il governo Spadolini e non se n’è accorto quasi nessuno.»
«Ma Padre Alfio, i Mondiali ogni quattro anni sono.»
«E che vuol dire, Tonì? Pure le elezioni sono ogni quattro anni».
«Sì, ma era dal ’70 che l’Italia non arrivava in finale.»
«E allora? Se è per questo un repubblicano a Palazzo Chigi non c’era mai entrato.»
Niente, era una battaglia persa. Dopo la vittoria contro gli odiati polacchi, finalmente arrivò il momento di ripitturare. Quella mattina trovai Padre Alfio con una salopette da meccanico di due misure più grande della sua. Quando arrivai, aveva già finito di passare il bianco nel soffitto di tutte le stanze. Per tinteggiare le pareti di giallino aggiunse un filo di marrone al bianco del ducotone e successivamente mischiò il composto con un pennello lungo. Usando una vecchia pennellessa, si dedicò prima ai bordi delle pareti. Poi attaccò un rullo nuovo a un bastone di scopa e con movimenti sicuri tinteggiò il resto del muro, stando attento a non imbrattare lo zoccolo e il soffitto. Io lo seguivo ammaliato, con la testa che faceva su e giù come il rullo. Non immaginavo fosse così bravo.
«Padre Alfio, me lo fa provare il rullo?»
«Sì, ma fammi finire la prima mano che è la più delicata. Se il colore non viene passato in maniera uniforme, poi in controluce si vedono le tracce e il muro pare schifiato.»
Come promesso, la seconda mano la diedi io. Padre Alfio mi affidò il bastone e con la voce mi guidò passo passo, mentre io facevo scorrere il rullo.
«Non deve gocciolare. Piano. Ripassa. Passa e ripassa. Così. Bravo, Tonino. Te l’ho detto che ci sei portato. Stai attento a non avvicinarti troppo al bordo.»
In mezza mattinata completammo due stanze, dividendoci i compiti come un’affiatata coppia di operai. Lui il mastro, io l’apprendista. Imbiancare mi era piaciuto. Ero contento e orgoglioso perché me l’ero cavata bene. Solo una volta avevo sfiorato il soffitto col rullo, ma Padre Alfio mi aveva tranquillizzato subito, dicendomi che a fine lavoro qualche ritocchino andava fatto comunque.
Ora sì che ero schizzato di colore come un autentico imbianchino. Come ogni fine giornata andammo in bagno per darci una ripulita. Quella volta, però, Padre Alfio si infilò nella vasca assieme a me. Ormai non provavo più tanta vergogna. C’era confidenza, il contatto fisico non mi imbarazzava come all’inizio, anche se vedere quel coso che gli si gonfiava tra le gambe mi fece una certa impressione. Forse Padre Alfio ne ebbe sentore, perché mi diede le spalle. In quel momento mi sembrò che si fosse rabbuiato. Mi sentii quasi in colpa.
Un attimo dopo mi stava confidando il suo segreto, un segreto tremendo: aveva una malattia grave, gravissima, per mia fortuna non contagiosa. L’aveva scoperto da una settimana. Era una malattia che si annidava nelle vene, che lo avrebbe potuto uccidere se qualcuno non lo avesse aiutato a fargliela uscire. Proprio da lì, mi confidò con un filo di voce.
«È un male infimo. Quando si accumula mi vengono dolori atroci qua, alla pancia. E disgraziatamente non esistono medicine. L’unico modo è farla uscire.» «Ma non si guarisce?»
«Col tempo. Forse. E con l’aiuto di Dio.»
Venni fuori dalla vasca che tremavo senza sentire freddo. Fissavo il vuoto barcollando, coi pensieri in disordine e il cuore in subbuglio: avevo visto la malattia di Padre Alfio. Gliel’avevo fatta uscire io. Mi sarei aspettato qualcosa di putrido, di canceroso e sanguinolento, piuttosto che un fluido biancastro, vischioso, sporco e allo stesso tempo puro.
Mentre mi rivestivo con movimenti da bradipo, Padre Alfio si rivolse al crocifisso d’argento posto sulla mensola e a voce alta ringraziò il Signore per avergli mandato un angelo.
«Sei un bambino fortunato, Tonì. Anche Maria fu prescelta dal Signore. Te lo ricordi?»
Non risposi. Prima di rispedirmi a San Francesco, il parroco mi mise una Bibbia in mano e mi fece giurare su Dio che non avrei detto mai a nessuno della sua malattia. Mai e poi mai. Né della malattia, né di tutto il resto. Né a mia zia, né a mio padre. «A nessuno», mi ripeté cento volte. Perché era una cosa brutta, di cui si vergognava troppo, e non voleva assolutamente che si venisse a sapere in giro.
«Tonì, sei l’unico a cui ho confidato il mio terribile segreto. Guardami negli occhi: hai giurato su Dio. Se mi tradisci, il Demonio ti verrà in sogno e te ne andrai dritto dritto all’inferno. Hai capito?»
Feci di sì con la testa, mezzo paralizzato dalla paura. Mi sentivo male, non ci capivo più niente. Sull’uscio del portoncino Padre Alfio tornò affabile, e salutandomi con un bacetto, mi infilò in un pugno una banconota da mille lire.
«Comprati tutte le figurine che vuoi, Tonì. Ci vediamo lunedì. E mi raccomando: silenzio e puntualità.»
Pubblicato in accordo con Emmerre Letterature
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