Come Trump potrebbe tornare presidente senza vincere le elezioni

Mike Johnson, lo speaker repubblicano della Camera, ha provato a metterci una toppa, ma c'è riuscito solo in parte. Tutto è nato dalle parole sibilline pronunciate da Trump durante il comizio al Madison Square Garden . "Penso che con il nostro piccolo segreto possiamo fare grandi cose alla Camera, giusto?", ha chiesto Trump indicando Johnson, "il nostro piccolo segreto avrà un grande effetto". I principali organi di stampa americani hanno fatto due più due, giungendo più o meno tutti alla stessa conclusione: Trump si riferiva all'ipotesi di respingere i voti elettorali che dovessero andare ai democratici garantendo loro la vittoria. "Parlava solo della nostra strategia per spingere gli elettori alle urne", ha chiosato qualche giorno dopo Johnson. In pochi sono sembrati convinti. Steve Bannon, ex stratega di Trump appena uscito di prigione, l’ha detto senza giri di parole: “Trump dovrebbe dichiarare subito la vittoria e affermare di essere pronto a evitare che gli venga rubata”. Quattro anni fa, in una conversazione privata finita sui giornali, Bannon aveva detto più o meno la stessa cosa. La svolta dell'Electoral Count Act Rispetto al 2020, però, Trump si trova in una situazione meno favorevole, e non solo per il fatto che rimanere alla Casa Bianca è più facile che tornarci. In questi quattro anni il Congresso ha modificato l'Electoral Count Act con una riforma che ha l’obiettivo preciso di blindare la certificazione dei voti, cioè esattamente il processo che l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 ha tentato di bloccare. Molti di coloro che hanno spalleggiato Trump nel suo tentativo di conservare il potere, inoltre, hanno pagato questa scelta a caro prezzo. I rischi sono più elevati, dunque, ma anche la posta in gioco è più alta: nel 2020 si trattava di salvare più che altro l’orgoglio, quest’anno perdere la Casa Bianca potrebbe significare per Trump affrontare una serie di grane giudiziarie che la carica di presidente gli consentirebbe di aggirare o azzerare. Il team di Trump ha fatto tesoro di questi quattro anni: cercare di bloccare la certificazione dei voti due mesi dopo le elezioni con una sanguinosa sommossa di popolo non è una scelta molto scaltra. Bisogna iniziare prima, molto prima. Prima ancora di andare alle urne. Cosa serve a Trump per il suo "piano" Ogni piano che si rispetti è articolato in più fasi, e questo non fa eccezione. La prima fase è già in atto: convincere i cittadini che il sistema elettorale è inaffidabile. I trumpiani questo non solo lo stanno già facendo, ma lo stanno facendo praticamente senza sosta dal novembre 2020. “Accetterò il risultato delle elezioni se si svolgeranno correttamente”, ha assicurato più volte Trump. Una frase di facile interpretazione, considerando che è stata pronunciata da chi ha definito il sistema elettorale americano “diabolicamente disonesto”. Sfruttando il periodo del voto anticipato, Trump sta già seminando dubbi sull’equità del procedimento in corso, ingigantendo le notizie relative a presunte irregolarità e condividendo via social qualsiasi informazione, fondata o meno, capace di portare acqua al suo mulino. “Trump ha passato settimane a promuovere dubbie accuse di frode elettorale di massa da parte dei democratici”, scrive Politico, “suggerendo che stessero registrando illegalmente migliaia di persone senza cittadinanza e sollecitando il voto illegale di elettori stranieri. Trump ha anche sollevato dubbi sulla capacità del servizio postale di gestire i voti espressi per corrispondenza”. Lo sforzo dell’ex Presidente è condiviso dall’intero Comitato Nazionale Repubblicano, guidato dalla nuora Lara Trump, e soprattutto da Elon Musk, che ha messo X al servizio dello stesso scopo. Più che adoperarsi nel consueto porta a porta per spingere gli elettori a votare, e a votare dalla parte “giusta”, i volontari repubblicani schierati nelle contee in bilico vengono istruiti su come assicurarsi che le elezioni si svolgano in maniera corretta, qualsiasi cosa questo voglia dire. È un lavoro che sta dando i suoi frutti. Ho incontrato un buon numero di elettori repubblicani nelle ultime settimane, e tutti mi hanno detto di essere preoccupati non tanto dall’esito delle elezioni quanto dalla possibilità di essere derubati della vittoria. Election deniers conservatori figurano oggi tra gli attivisti, gli osservatori e addirittura i funzionali locali incaricati di sovrintendere al processo di voto. Ricapitolando: il primo passo consiste nel mettere in dubbio la regolarità delle presidenziali minando la fiducia dei cittadini nel sistema elettorale, il secondo prevede di cantare vittoria prima del dovuto, come suggerito da Bannon. Il terzo passo ha a che fare con il sistema di certificazione dei voti espressi. Il sistema elettorale americano prevede che, una volta chiusi i seggi ed effettuato il conteggio dei voti, i risultati vengano comunicati ai vertici statali per essere poi inviati al Congresso, che certifica l’esito della tornata assegnando i voti elettorali di ciascuno stato al candidato che ha vinto in quello stesso stato. Il 6 gennaio 2021 Trump e compagni hanno cercato di far deragliare il procedimento intervenendo sulla sua ultima fase, la certificazione dei voti comunicati dagli Stati da parte del Congresso. Stavolta l’idea è di intervenire prima che il risultato venga comunicato ai governatori degli Stati. L'importanza di avere una Camera repubblicana Sarà una corsa contro il tempo. I repubblicani chiedono che lo spoglio avvenga in fretta, ma nello stesso tempo a livello locale varano leggi che avranno l’effetto contrario . Più sarà lunga l’attesa dei risultati, più crescerà l’incertezza. Buona parte degli Stati impone alle contee di certificare i risultati entro la fine di novembre, mentre una legge federale stabilisce che questi stessi risultati vanno inviati a Washington entro l'11 dicembre. Nessuno di questi provvedimenti, però, stabilisce cosa accade se la scadenza non viene rispettata. È facile immaginare che la parola passerebbe ai tribunali, aggiungendo incertezza all’incertezza. Immaginate la situazione. In uno o più Stati in bilico la conta delle schede va per le lunghe, Trump si dichiara vincitore, i suoi sostenitori cominciano a parlare di brogli, gli attivisti scendono in piazza, avvertimenti e minacce ai funzionari si moltiplicano, le scadenze di legge vengono inevase e tutto finisce in tribunale. Sarebbe il momento perfetto per passare alla quarta fase. La riforma dell’Electoral Count Act citata in precedenza sottrae ai parlamenti statali il compito di comunicare la certificazione dei voti al Congresso, affidandolo ai governatori: la costituzionalità di questa parte del provvedimento, tuttavia, è dubbia. La legge non chiarisce cosa succederebbe se, magari in una situazione di tensione crescente, le camere statali decidessero di cedere alla pressione della piazza sottoponendo al Congresso federale la “loro” lista di grandi elettori, diversa da quella comunicata dai governatori . Il Congresso, presieduto il 6 gennaio dal vicepresidente e dunque da Kamala Harris, si potrebbe trovare a gestire una situazione in cui uno o più Stati decisivi hanno inviato due liste diverse di grandi elettori. Se la vicepresidente decidesse di prendere per buona una delle due liste, la certificazione potrebbe essere contestata a richiesta di 87 membri della Camera e 20 senatori, con una conseguente sospensione dei lavori seguita da un dibattito di due ore e da un voto per decidere se certificare o meno. Avere il controllo di una o di entrambe le camere per i repubblicani sarebbe quindi fondamentale, a questo scopo: Mike Johnson si troverebbe a fare il playmaker repubblicano nella “sua” Camera. Ricordate il piccolo segreto da cui siamo partiti? Sarebbe il caos, e aprirebbe la strada alla fase finale, magari passando per una Corte Suprema attualmente a maggioranza conservatrice. L'ultima fase La fase finale, appunto. Se le manovre trumpiane riuscissero a gettare il Paese in una situazione di grave incertezza istituzionale, l’impasse potrebbe portare a quella che viene definita una contingent election. Quando le elezioni non sono in grado di determinare un vincitore, la scelta spetta al Camera, con una procedura che attribuisce un voto a ogni delegazione statale. In questo momento i repubblicani controllano 27 delegazioni contro le 23 guidate dai democratici. Potrebbero quindi facilmente imporre il loro candidato: Donald Trump. Intendiamoci, la strategia che ho appena tracciato rappresenterebbe per i repubblicani una mossa temeraria il cui successo non sarebbe certo assicurato. Molti tasselli dovrebbero finire al loro posto per permettere a Trump di tornare alla Casa Bianca seguendo questa strada, e non è detto che ciò accada. I democratici, tanto per fare un esempio, potrebbero vincere le elezioni con un risultato schiacciante, impedendo di fatto ai trumpiani di mettere in scena il loro dramma. Trump, inoltre, potrebbe molto semplicemente aggiudicarsi la vittoria regolarmente, senza bisogno di alcuna strategia alternativa. Tutto ciò che ho scritto sarebbe solo materiale per un political thriller, se si verificasse una di queste ipotesi. C’è un “se”, però.

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