Dal Libano alla Siria, un altro esodo: “Tanta povertà, sarà un inverno senza risorse”

Il luogo di nessuno, o forse di tutti: di chi c’è, di chi se ne è andato, di chi fugge e poi ritorna. Inconquistato. In greco è questo il significato di Homs – Emesa nell’antichità -, la città che deve il suo nome a uno status ancora oggi valido, seppur in condizioni diverse. Laggiù in Siria, al valico del nord con il Paese dei Cedri, molti dei libanesi sfollati cercano soccorso dopo i blitz mirati e il superamento da parte di Israele della linea blu al confine, fissata dall’Onu nel 2000. “Ci sono anche i siriani stessi. Negli anni passati erano scappati in Libano per trovare rifugio dal conflitto più intenso che non è mai terminato. Tornare qui è un paradosso: il Libano è sempre stato considerato un posto sicuro per loro”. Ospitalità per riconoscenza. Davide Chiarot, però, è lì per dare e basta. Per assistenza, sostegno e per provare a ripianificare, da operatore di Caritas Italia, un futuro che agli occhi di tanti profughi sbiadisce ancora una volta. Davide, perché si trova a Homs? Sono arrivato in Siria nel 2023. Dopo meno di 15 giorni c’è stato il terremoto che ha reso la situazione ancora più critica. A seguito dell’attacco di Israele, si è diffusa tanta preoccupazione in Libano e la gente ha iniziato a fuggire. Tra libanesi, siriani e non solo si parla di più di 200mila persone. Tanti di loro hanno dei riferimenti come amici e familiari e trovano appoggio. Poi qui gli affitti costano meno di Beirut, quindi magari i libanesi hanno la possibilità di permetterseli. Qualche giorno fa l’Ue ha stanziato 500mila euro per l’acquisto di materassi e coperte. La prima risposta è stata buona, ha tolto un po’ di pressione. Ma ci sono anche delle problematiche… La mobilità è già di per sé difficile in Siria. Con questi flussi, le persone si accampano nei garage e nei pullman in attesa di potersi muovere, per chi può andare da qualche parte. C’è scarsità cronica di carburante: una parte arrivava dal Libano e col conflitto si è bloccato tutto il trasporto. Venerdì 4 ottobre, poi, uno dei valichi tra Beirut e Damasco è stato danneggiato da un bombardamento aereo che ha interrotto la strada. Bisognerà capire se la ripristineranno e se sarà un transito sicuro oppure no. Come vengono gestiti dallo Stato questi rimpatri? Per chi è tornato dopo essere stato all’estero c’era l’obbligo di cambiare 100 dollari in valuta siriana, era diventato un peso insostenibile. Il governo ha deciso di sospendere questa misura per lo stato d’emergenza, in modo da favorire gli afflussi. Purtroppo c’è chi se ne approfitta per vie di contrabbando, o con passaggi in pullman, in macchina. Nella fragilità le persone sono prede di chi ne trae vantaggio. Il conflitto ha portato all’estremo una condizione preesistente? Sì. Soprattutto dal punto di vista economico. La situazione è pesante da prima del terremoto: in Siria sono in guerra da 14 anni. Non ci sono più gli scontri violenti di un tempo, ma il Paese non vede nessuna ripresa. Le infrastrutture sono distrutte, il sistema economico è ai minimi storici col 90% dei siriani sotto la soglia di povertà. Il problema dei siriani è sopravvivere e non c’è possibilità di immaginare una ripartenza. A proposito di futuro, come saranno i prossimi mesi? C’è il timore di come il conflitto possa estendersi anche al territorio siriano. In questo momento il rischio sembra controllato, l'interesse di Israele colpisce la Siria laddove ha informazioni per interrompere i canali di rifornimento, che dall'Iran arriverebbero a Hezbollah in Libano. Anche gli attacchi rientrano nella normalità, ma si sono intensificati. Ma le sfide più grandi toccano ancora alle persone. Ci avviciniamo verso l’inverno, il periodo più freddo. Sarà una prova per tutti, in particolare per le persone più fragili, gli anziani, i bambini e le famiglie. A ogni nucleo familiare spettano appena 50 litri di gasolio, ci si scalda solo con le stufe. È impossibile immaginare di poter vivere così. La Siria torna sotto i riflettori per una nuova crisi, ma sono anni che il Paese sopravvive in questo modo. Leggevo da Damasco alcuni dati: hanno stimato che finora sono più di 5.500 le persone che hanno avuto bisogno di un'assistenza sanitaria. Spesso partono con malattie croniche, hanno bisogno di farmaci. Magari ci sono donne incinte e bambini piccoli che necessitano del richiamo dei vaccini. Un contesto che richiede una forza incredibile. La gente vive tutto con un certo fatalismo, sperando che prima o dopo qualcosa cambi. Una possibilità o è vana speranza? È stanchezza, tanta stanchezza. Bisogna immaginarsi cosa voglia dire essere già sfollati, lasciando il proprio Paese per una guerra e doverci tornare mentre si scappa dalle bombe. Tanti in questi anni hanno perso familiari o amici, rientrare non è semplice. Cosa li spinge ad andare avanti? Da quando sono arrivato, la cosa più incredibile che ho notato è vedere la loro forza d'animo. L'idea che la vita continua e che si può godere anche delle piccole cose semplici. Pur avendo poco, continuano ad accogliere civili. Fanno capire come anche nel nulla si può condividere qualcosa. L’ospitalità è un valore nel Dna del popolo siriano e questo si avverte sempre. Purtroppo, siamo a un livello in cui la gente non può incidere, ma ciascuno si impegna almeno a costruire la propria pace.