L'eredità del dolore del 7 ottobre

Benny ci crede ora più che mai. Ora la pace è possibile. “Ma quale pace? Ma di cosa sta parlando?”. Intorno sono tutti un po’ sarcastici. Lui spiega che il dolore ha un limite, spiega che l’animo umano non può sopportarne più di una certa quantità, e così i popoli, le nazioni. E la somma di dolori accumulati da israeliani e palestinesi in questo ultimo anno ha passato il limite. Ora una soluzione la vuole anche chi non lo ammette. Suo cugino Gal è morto freddato da un palestinese gazawi al festival Nova il 7 ottobre 2023. Era un attivista. Aiutava i palestinesi malati di Gaza ad ottenere i permessi per andarsi a ricoverare nell’ospedale israeliano di Ashkelon. Ma ciò non lo ha aiutato. “Vaglielo a spiegare a quelle bestie assetate di sangue” dice Dafna. “Hanno colpito le persone che più credevano nel dialogo. Non so se Benny ha ragione”. Dafna parla spesso con amici e funzionari dell’Autorità palestinese della Cisgiordania. Anche lei si definisce attivista per la pace. Cercano di trovare una via d’uscita. Combattono insieme la violenza razzista dei coloni ebrei estremisti. Denunciano la passiva collaborazione e l’impunità garantita loro dall’esercito. Dafna parla quasi tutti i giorni specialmente con Zaid e Karim, due trentenni di Ramallah. Si raccontano reciprocamente i lutti, i soprusi, i dolori e le arrabbiature che vivono quotidianamente. Una volta questi dialoghi avevano sempre uno stesso schema. Zaid o Karim raccontavano, Dafna prendeva appunti, si indignava, si diceva dispiaciuta. Dal 7 ottobre dello scorso anno anche lei parla tanto. Racconta storie. Cerca di far comprendere che la ferita è stata enorme. E loro ascoltano, cercano di capire. “Non so quanto comprendano realmente ciò che voglio trasmettergli”, confessa Dafna. Il dolore degli israeliani è penetrato in tutti gli strati sociali, etnici, politici e religiosi dello Stato e di una delle società più variegate del mondo occidentale. Ha plasmato un popolo e ne ha definito la risposta. Lo ha reso cieco, forse, indifferente al dolore altrui. Così dicono in molti. Tutt’altro, sostengono alcuni, lo ha destato, lo ha fatto diventare consapevole di chi ha intorno, della minaccia che incombe perenne, del fatto che tutto deve cambiare per sempre. Il dolore degli israeliani è lo shock dei milioni di cittadini che vivevano le loro vite lontane dal conflitto e indifferenti all’attualità politica. È la delusione degli attivisti che, sempre più soli, credevano, se non nella pace, nell’importanza di piccoli o grandi gesti di collaborazione con l’altra parte. È l’orrore destato in tutti dalla freddezza e dalla spietata azione dei giovani penetrati da Gaza, membri di Hamas, della Jihad o solo compagni di scorribande. Impegnati a massacrare a sangue freddo chiunque incontrassero, senza un limite, senza un criterio, solo per fare più male possibile. Il loro dolore è quello delle centinaia di famiglie consapevoli di avere genitori, figli, sorelle e fratelli, rinchiusi nei tunnel di Gaza, sequestrati dai terroristi, torturati o violentati, e più della metà ormai morti senza rivedere la luce. Il dolore degli israeliani è come uno schiaffo. Lo schiaffo ricevuto dai nemici e quello inferto dal resto del mondo. Dai milioni di persone che dall’8 ottobre già dicevano “Sì, condanniamo l’attacco, ma…”, o che il 7 ottobre sera “ammonivano Israele a non reagire esagerando”. E invece Israele ha esagerato. E già dopo una settimana dal massacro, le piazze d’Europa e d’America si riempivano, entusiaste di appoggiare la “resistenza” palestinese per “la libertà e la giustizia”. Il dolore degli israeliani è stato constatare con quanta facilità hanno perso l’empatia altrui e con quanta difficoltà i macellai di Hamas vengono criticati nelle piazze, nelle conferenze, nelle università, nei comizi di chi invoca la pace. Nessuno, in quei raduni, si chiede perché gli islamisti di Gaza non abbiano mai fatto nulla per proteggere i civili che governano. Anzi, perché più volte abbiano invocato il martirio di donne e bambini come sacrificio necessario per la lotta. Il dolore del 7 ottobre ha reso cieco e sordo il popolo israeliano alla tragedia altrui, alle quasi 50 mila vittime, alle famiglie palestinesi distrutte, alle migliaia di minori e bambini morti. Ma nessuno può chiedere ad un israeliano, come a un palestinese, di giudicare in maniera equa ed obiettiva. Lo scrittore e intellettuale israeliano Yuval Harari, dopo la tragedia ce lo ha detto chiaramente: “Non ho la capacità emotiva o l'autorità morale per parlare di come stanno le cose dal lato palestinese. E viceversa.” E ai tanti che fuori dal Medioriente pensano di avere questa autorità, ai tanti che pensano di aver capito tutto e che non ci sia bisogno di comprendere realmente il vissuto di chi è in mezzo alla tempesta per condannare, sostenere, lottare in nome altrui, sentiamo di dare, facendo nostro, il consiglio che sempre Harari ha dato loro nell’ottobre scorso: Non siate intellettualmente pigri. Non siate emotivamente pigri. Non limitatevi a scegliere una parte e a costruire una storia semplicistica come quella che avete qui. Bene contro male. Il 100% del bene è da una parte. Il 100% del male è dall'altra parte. Tutto qui. Se non avete il tempo di approfondire, almeno siate consapevoli che la realtà è molto, molto più complessa.

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