A Shatila le ragazze palestinesi si emancipano col basket

“Non ho mai pensato che una giocatrice di basket palestinese potesse esistere, finché non ho incontrato la squadra. Avevo 13 anni. Ora ne ho 23, e dopo dieci anni il progetto è ancora in piedi. Le cose intorno, però, stanno cambiando: con la guerra che incombe sul Libano non ci resta che vivere giorno per giorno”. Ameena è cresciuta nello storico campo profughi palestinese di Sabra e Shatila, a Beirut, capitale libanese. È stata una delle cestiste di punta della squadra femminile allenata da “captain” Majdi Adams nell’ambito del progetto – nato tra Beirut e Roma nel 2017 – che fa dello sport un’occasione di autodeterminazione: Basket Beats Borders. Il centro di aggregazione di coach Majdi, lo Shatila sporting community center, si trova agli ultimi due piani di uno degli altissimi palazzi del campo, fatti in calce di sabbia e mattoni. “Guardate – dice mentre accompagna un gruppo di cooperanti a esplorare il quartiere – questa è muffa. Sai quante persone respirano questa umidità e si rovinano i polmoni? Qui ci vivono anche dei bambini”. L’assembramento protende tutto verso l’alto: si sviluppa in edifici decadenti che ogni anno acquistano centimetri per soddisfare le necessità abitative dei residenti. Rifugiati dell’Unrwa Beirut non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, e non ha nemmeno integrato i palestinesi nel tessuto sociale del Paese. Dopo la nakba , nel 1949 il Libano ha concesso un chilometro quadrato di terra alla Croce Rossa per la costruzione del campo di Shatila, ora gestito dall’Unrwa . Oggi quello spazio sovraffollato ospita più di 20mila persone, tra cui ragazzine palestinesi, libanesi e non solo. “Visti i costi della vita irrisori, i residenti ora includono anche rifugiati siriani, lavoratori sudanesi, ragazze etiopi e gitani arabi”, spiega David Ruggini, capomissione a Beirut della ong “Un ponte per”. I palestinesi, però, sono lì da più di settant’anni: sono circa 400mila in tutto quelli registrati all’agenzia Onu, anche se la stima è molto più alta. Non sono apolidi ma rifugiati solo perché Unrwa fornisce loro l’anagrafe e i certificati di nascita, oltre a scuola, e servizi sanitari. La situazione di Sabra e Shatila è talmente eccezionale che, dice Ruggini, “i palestinesi del Libano sono l’unica popolazione al mondo, da che mi risulti, per cui lo status di rifugiato è ereditario”. Autodeterminarsi attraverso lo sport “Io e mio padre abbiamo fondato il team insieme - racconta Razan, la figlia di Adams -. Ho giocato con loro per 4 anni, poi è arrivato Nabil [suo figlio, ndr] ma non ho smesso di partecipare al progetto”. Secondo Razan le opzioni per i bambini del campo non sono molte, “non hanno un granché da fare qui”, dice. Lei l’ha capito quando ha pensato per la prima volta al futuro di Nabil, che vorrebbe far studiare perché non finisca per perdersi nei vicoli umidi del campo. “E per le bambine la situazione è ancora più complicata”. Captain Majdi dice che quella di formare una squadra di basket femminile è stata un’intuizione improvvisa: “Ho lavorato per 15 anni con i ragazzini. Mi sono accorto che una volta raggiunta l’adolescenza si fanno più maturi, e iniziano a pensare ai loro sogni, al loro futuro, a rendersi indipendenti – dice -. Mi sono detto che non era giusto che le bambine fossero escluse da questa opportunità”. Non è stato facile convincere loro e le rispettive famiglie, ma alla fine lui e Razan ci sono riusciti. “Abbiamo messo su la squadra nel 2012, ora la prima generazione di cestiste è cresciuta, è impegnata a cercare lavoro o a sposarsi – racconta il coach -, la seconda generazione è stata ispirata dalla prima. Le ragazze di oggi vogliono fare quello che hanno fatto le loro compagne più grandi: giocare, divertirsi… e viaggiare”. Un ponte tra il Libano e l’Europa “Ho visitato molti Paesi in nome dello sport. È così che ho dimostrato di essere una giocatrice di basket, per di più palestinese”, dice Ameena. Basket beats borders non solo ha permesso alle ragazze di Shatila di superare il pregiudizio culturale di cui parlava Razan, e che limitava loro l’accesso allo sport. Grazie alla partnership con due squadre di basket popolare di Roma - gli All Reds e l’Atletico San Lorenzo - e al lavoro con la ong “Un ponte per”, il progetto si è allargato. Ha coinvolto anche giocatrici di Bologna, Madrid e Paesi Baschi, oltre a quelle di Giordania e Iraq. La squadra di Ameena e Razan è riuscita così a confrontarsi con giocatrici professioniste, cogliendo la rara occasione di attraversare i confini sia si Shatila sia del Libano. “Tra i diritti principali che sono stati messi in discussione con questo stato giuridico di ‘doppie rifugiate’ – rese tali una volta da Israele e una volta dal Libano – c’è la libertà di movimento”, spiega Daniele Napolitano, fotoreporter e sostenitore del progetto. Ha accompagnato il team di Shatila a Madrid nella dieci giorni di scambio con la squadra popolare spagnola “Liga cooperativa”, nell’estate del 2022, e ricorda quei giorni pieni di entusiasmo ed eccitazione. “È stato molto prezioso per loro confrontarsi con squadre femminili all’estero”, dice. “Uno dei momenti più forti è stato quando una cestista spagnola ha chiesto a Rola , se aveva voglia di mettersi il rossetto insieme a loro prima del match. Il bello di questo progetto è che attiva anche nuovi rapporti di cura tra le ragazze”. E poi è stata un’occasione per visitare il mondo. “Avevano davvero voglia di fare le turiste, visitare monumenti, girare per le strade. È stato bello, ma ha sottolineato anche il fatto che viaggiare non è scontato per loro”. Razan dice che lei e suo padre, uniti nel progetto, hanno idee molto diverse sul mondo. “Io gli dico ‘voglio andare via da Shatila, devo portare via Nabil’, lui mi risponde ‘tu sei nata qui e la tua trasformazione devi farla qui”. Captain Majdi, infatti, conosce il valore dello sport, ma sa che il suo lavoro è prezioso soprattutto perché è a Shatila. Per questo ha fatto del suo centro una forza che si autoalimenta. Le generazioni di ragazze cambiano, dando l’esempio a quelle che arrivano dopo, e lasciano loro una lezione preziosa: il basket può essere la loro finestra sul mondo.