Farahnaz Forotan, giornalista afghana in esilio: "La lotta delle donne al regime continua"

Immaginate di essere una giornalista di spicco della televisione afghana, di avere una professione e un lavoro stabile. Immaginate, da un giorno all'altro, di dover fare le valigie e abbandonare il vostro lavoro, la vostra casa, le vostre abitudini. Immaginate di ritrovarvi catapultati in un Paese e in un continente che non conoscete e, lì, essere costretti a ricominciare tutto da zero. Farahnaz Forotan, 32 anni, è una giornalista e autrice di Kabul che, da quattro anni, vive in esilio fuori dall'Afghanistan. “Non c'è niente di più doloroso, per me, di non poter lavorare per il mio popolo. La mia è una storia di migrazione, è il viaggio doloroso di chi non ha mai voluto partire, ma è stato obbligato a lasciare la propria casa per le costanti minacce dei talebani”, ha raccontato Farahnaz Forotan a Sky tg24 Insider. È il 9 novembre 2020 quando la reporter, che all'epoca lavorava per alcune delle più importanti emittenti televisive del Paese, riceve una telefonata dal Comitato per la sicurezza dei giornalisti afghani. Le dicono che è stata inserita nella lista nera dei talebani. Solo qualche mese prima, il 12 settembre 2020, si trovava a Doha per uno degli eventi politici più importanti dell'epoca: i colloqui di pace tra il governo afghano e i talebani, mediati da Stati Uniti e Qatar. In quell'occasione, Forotan aveva intervistato Sohail Shaheen, il portavoce talebano. “Come molte giovani donne di Kabul, io non porto il velo. Lui non ha potuto nascondere il suo disprezzo per la mia presenza e mi ha ignorata. Io non mi sono mossa. Mi sono rifiutata di essere invisibile e ho continuato a puntargli addosso la fotocamera del telefono mentre facevo le mie domande”, aveva raccontato la giornalista in un articolo per il New York Times. La telefonata del 9 novembre, però, cambia tutto. “Sentivo che era il momento di decidere: affrontare la consapevolezza che sarei stata uccisa o scegliere la vita, anche se questo significava lasciarsi tutto alle spalle. Ho scelto la vita”, ha detto Forotan a Sky tg24 Insider. Con l'aiuto di Amnesty International e dell'ambasciata francese a Kabul, riesce a ottenere un visto d'emergenza per Parigi, dove rimane per qualche anno prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Lì, a chilometri di distanza dalla sua terra, continua a portare avanti la sua lotta per i diritti delle donne afghane. “Se mai ci sarà un futuro in Afghanistan, ci sarà grazie alle donne. Loro sono le vere costruttrici della nazione, amanti della vita, che hanno scelto di vivere piuttosto che morire”, ha aggiunto. Sono trascorsi poco più di tre anni dalla caduta di Kabul e dal ritorno dei talebani in Afghanistan. Qual è oggi la situazione politica nel Paese? Tre anni dopo la caduta di Kabul e il ritorno dei talebani, l'Afghanistan rimane senza una costituzione. L'assenza di elezioni o di qualsiasi forma di governance democratica ha portato a una totale concentrazione del potere sotto un'unica leadership. Questa leadership, che è stata collegata ad anni di attentati suicidi, mantiene una presa autoritaria sul Paese. Il pluralismo politico è inesistente e non esiste alcuna possibilità di dissenso, perché la libertà di parola è stata completamente soppressa. Il controllo dei talebani è sempre più caratterizzato da una governance esclusiva ed etnocentrica, che privilegia la lealtà al gruppo ed emargina le altre fazioni politiche e le comunità etniche. Il panorama politico dell'Afghanistan è ora dettato interamente dai talebani, senza un chiaro percorso di riforma o transizione politica. I diritti umani in Afghanistan sono soppressi a causa delle violazioni dei talebani. Vede delle differenze tra l'attuale regime e quello precedente, dal 1996 al 2001? Personalmente non vedo cambiamenti significativi tra il regime attuale e quello dal 1996 al 2001. L'unica tattica degna di nota dei talebani è il modo in cui usano le donne come leva per ottenere concessioni dal mondo. Alcuni Paesi si stanno impegnando contro i talebani, ma non capiscono che arriverà un giorno in cui non saranno più in grado di controllarli, anche se lo vogliono. Se i talebani cambiano, cessano di essere talebani. Si tratta di un gruppo che ha legalizzato la violenza e, mettendo in mostra gli strumenti degli attentati suicidi, continua a traumatizzare le innumerevoli vittime che hanno subito questi attacchi. In Afghanistan le donne vivono in una condizione di totale oppressione. Una recente legge dei talebani vieta loro di alzare la voce in pubblico: non possono cantare, leggere a voce alta, neppure all'interno della propria casa. Come si è arrivati, secondo lei, a una situazione così estrema? Immaginate di essere un'adolescente o una giovane donna in Afghanistan, dove non vi è permesso nemmeno di avere una voce. Questo va oltre l'immaginazione, oltre il concetto di disastro. La nuova legge talebana disumanizza le donne privandole dei loro diritti di esseri umani. Questa legge, nella sua interezza, riflette la profonda opposizione dei talebani alle donne come individui. Purtroppo, anche la società chiusa e non istruita si allinea in larga misura a questa visione. È chiaro che i talebani considerano le donne solo come oggetti per il sesso e la maternità. Creano leggi per loro e prendono decisioni per loro conto. D'altro canto, però, le donne afghane hanno dimostrato negli ultimi tre anni, e continuano a dimostrare ancora oggi, di essere consapevoli dei propri diritti. Sanno quali sono i loro diritti e, nonostante le difficoltà e le amarezze, lottano. Rimangono instancabili e imbattibili. Anche l'economia dell'Afghanistan è crollata. Perché? L'economia dell'Afghanistan è crollata a causa di diversi fattori critici. Negli ultimi vent'anni, il Paese dipendeva fortemente dalle importazioni, con una produzione interna e uno sviluppo delle esportazioni minimi, che lo hanno reso vulnerabile agli shock esterni. Da quando i talebani hanno assunto il controllo, hanno centralizzato le operazioni finanziarie, comprese quelle fiscali e doganali, ma senza trasparenza. Nonostante il libero mercato, il debole sostegno alla crescita del settore privato e la diffusa corruzione del precedente governo hanno eroso la stabilità economica. La dipendenza dagli aiuti esteri, insieme al recente congelamento delle riserve internazionali e alle sanzioni, ha ulteriormente paralizzato l'economia, rendendo improbabile una ripresa senza riforme sostanziali e cooperazione internazionale. Lei è nata a Kabul, ma nel 2020 si è trasferita in Francia e, successivamente, negli Stati Uniti. Che cosa significa per un giornalista, e soprattutto per una giornalista, vivere sotto il regime dei talebani? Siamo onesti: la vita delle donne e del popolo afghano non è mai stata perfetta, nemmeno negli ultimi vent'anni. Sono nata e cresciuta in guerra, sono figlia della guerra e della violenza. L'unica ragione per cui ho avuto l'opportunità di lavorare nei media è stata la presenza dei Paesi della Nato e degli Stati Uniti in Afghanistan. La nostra società è stata plasmata da quanrant'anni di conflitti, che l'hanno resa profondamente anti-donna e chiusa, spogliata della sua etica sociale e umana. Siamo tutti una generazione di guerra. Come giornalista, e soprattutto come giornalista donna, vivere sotto il regime dittatoriale dei talebani è inimmaginabile. Mi sento divisa in due parti, ed entrambe fanno male. In esilio non trovo pace, eppure non ho alcuna possibilità di tornare a vivere in Afghanistan. Ho dovuto ricominciare la mia vita da zero e non c'è niente di più doloroso per me che non poter lavorare per il mio popolo negli anni migliori della mia vita, quando sono più esperta e capace. La mia storia è una storia di migrazione, il viaggio doloroso condiviso da tutti coloro che non hanno mai voluto partire, ma sono stati costretti ad abbandonare le loro case, le loro vite e i loro ricordi. È doloroso sapere che invece di andare avanti, siamo tornati indietro. Tuttavia, sono così orgogliosa di tutte le ragazze che sono ancora lì e che lottano con tanta determinazione. Sono una fonte di ispirazione per me. In Afghanistan non esiste libertà di stampa e, a essere maggiormente colpite da censura e repressione, sono le giornaliste. Quando è stato il momento in cui ha realizzato che doveva lasciare il Paese? Il momento in cui ho capito che dovevo andarmene è stato quando sono iniziate le uccisioni mirate di giornalisti, attivisti e intellettuali nel 2020. A quel punto ho sentito che le mura intorno a me si stavano chiudendo e che la mia vita era in pericolo. È stato poco dopo l'inizio dei negoziati diretti tra l'ex governo afghano e i talebani, che ho seguito insieme ad altri giornalisti a Doha. La crescente violenza contro la stampa, in particolare contro le donne, ha reso chiaro che non era più possibile restare. Come giornalista e donna, avevo combattuto molte battaglie nel corso degli anni, ma con le crescenti minacce, sapevo che la mia sicurezza non era più garantita. Sentivo che era il momento di scegliere: affrontare la consapevolezza che sarei stata uccisa o scegliere la vita, anche se questo significava lasciarsi tutto alle spalle. Ho scelto la vita. Perché non volevo essere uccisa senza motivo. Nel 2019 ha cofondato #MyRedLine, una campagna per i diritti delle donne afghane. Qual era il suo obiettivo? La campagna #MyRedLine è stata lanciata all'apice dei colloqui di pace. Ho creato questa campagna per garantire che le voci delle donne fossero incluse in modo significativo nel processo di pace. A quel tempo, nessuno ci ascoltava. Abbiamo bussato a molte porte, alzato la voce, insistito sul fatto che qualsiasi pace che non salvaguardasse le donne e i loro diritti non era una pace, ma piuttosto un'altra guerra contro le donne. Questa campagna è diventata uno dei movimenti più noti tra il 2019 e la caduta dell'Afghanistan. Tuttavia, il crollo è avvenuto e tutto ciò di cui avevamo avvertito in questa campagna si è avverato. Ecco perché nulla di ciò che riguarda i talebani o la situazione attuale è scioccante per me, perché sapevo cosa sarebbe successo se non fossimo stati ascoltati. Quale futuro attende l'Afghanistan, secondo lei? Nel corso della mia vita di donna, ho sempre creduto in me stessa e nella mia capacità di creare un cambiamento. E quel cambiamento l'ho creato. Ho cambiato prima la mia famiglia e poi molte altre. Vedo il futuro con le donne. Dal giorno in cui ho iniziato a lavorare, ho creduto che le donne avrebbero cambiato il Paese. Quando le donne sono state le prime a scendere in strada dopo la caduta dell'Afghanistan, questa convinzione è diventata ancora più chiara. Posso dire con certezza che le donne afghane sono entrate in una nuova fase della loro lotta, sia all'interno che all'esterno del Paese. Quelle che sono rimaste all'interno sono le pioniere di questa lotta e io sono al loro fianco, seguo le loro orme. Credo fermamente che se mai ci sarà un futuro in Afghanistan, ci sarà con le donne. Il futuro dell'Afghanistan sono le donne, donne che non hanno avuto alcun ruolo nella guerra, che sono state solo vittime. Sono loro le vere costruttrici della nazione, amanti della vita che hanno scelto di vivere piuttosto che morire. Donne che sono state vittime della società, della sua gente, delle sue leggi. Vittime, persino, della pace stessa.