A due anni dalla morte di Mahsa Amini, in Iran ci sono nuove forme di protesta

“Le modalità delle proteste, in Iran, oggi sono cambiate ma continuano sempre, per sfidare il regime degli Ayatollah. Nessuno potrà mai mettere a tacere quanti si sentono oppressi e privati della loro libertà”. A parlare è il regista iraniano Ashkan Khatib – 44 anni, fuggito in Italia dopo aver subito minacce e dopo essere stato sottoposto a interrogatori come oppositore del Governo di Teheran. Lo incontriamo a Milano, dopo che è appena andato in scena il suo spettacolo “Le tre sorelle”: una rappresentazione teatrale che racconta la storia di una iraniana – attrice anche lei che si chiama Sadaf Baghbani – costretta a scappare dal suo Paese perché aveva partecipato alle manifestazioni “Donna, vita, libertà”, esplose in seguito alla morte di Mahsa Amini, la giovane curdo-iraniana arrestata a Teheran dalla polizia morale perché non indossava il velo in modo corretto e morta dopo tre giorni di coma mentre era in custodia cautelare. Ashkan continua ad essere in contatto con gli attivisti che vivono in Iran. Li rappresenta altrove, attraverso le sue opere teatrali, che vogliono dare voce a chi non può farsi sentire: “A Teheran le famiglie delle ragazze e dei ragazzi che sono stati uccisi dalle forze di sicurezza del regime non si arrendono. Continuano a lottare con coraggio per opporsi all’uso brutale della forza che impedisce a tutti, donne e uomini, di chiedere verità e giustizia per i loro cari che sono stati uccisi illegalmente”. Le nuove forme di protesta Le donne, soprattutto, sono nel mirino delle autorità iraniane. Ashkan ci spiega che almeno una volta al mese nasce una nuova forma di protesta in Iran. “A volte le ragazze si riuniscono in gruppetti di 15 o 16 e ballano nelle strade, senza velo, con i capelli sciolti. Sanno che è molto pericoloso esporsi così e che verranno arrestate, ammanettate e condotte dentro i furgoni della polizia, eppure non hanno paura. Sono donne coraggiose, che hanno scelto di restare nel loro Paese e cercano qui la libertà”. Le proteste oggi – ci raccontano gli attivisti di “Donna, vita, libertà” - sono silenziose ma avvengono quotidianamente con atti di disobbedienza civile: sono sempre di più le donne che si mostrano in pubblico senza hijab, mentre camminano, nei parchi, nelle strade, con i capelli al vento. L’ondata delle piazze si è affievolita in questo secondo anniversario dalla morte di Mahsa Amini, ma si cercano nuove strade per sfidare i divieti. A scuola, nelle università, fra artisti, professionisti, medici: in ogni campo si cerca una forma per combattere. Sono proteste che avvengono sempre a volto scoperto: ci si batte contro la censura, contro i divieti anche solo con un gesto, uno slogan da sventolare, un’azione piccola ma che va contro il sistema”. Gli attivisti spesso utilizzano i social per comunicare anche se sanno benissimo che il web è super controllato dal regime e gli Ayatollah vietano qualsiasi contatto con il resto del mondo. E quando esplodono le proteste le autorità chiudono ogni accesso al web e la rete viene bloccata. Due anni dopo Mahsa Amini Secondo Amensty International, due anni dopo la morte di Mahsa Amini, le autorità iraniane hanno raddoppiato l’uso della pena di morte utilizzata come strumento utilizzato per terrorizzare la popolazione. Nel 2023 c’è stato il più alto numero di esecuzioni dei precedenti otto anni: almeno 853. Iran Human Rights ha calcolato che nel 2024 è di almeno 427 il numero delle esecuzioni , di cui 15 hanno riguardato le donne . E se guardiamo indietro, fra gennaio e novembre 2023 sono state eseguite 700 pene capitali - si legge nel dossier di Iran human Rights. Tra le persone giustiziate, 238 erano accusate di "omicidio intenzionale", 390 hanno riguardato i reati legati alla droga. Ma ci sono state anche condanne a morte con accuse politiche, per blasfemia e per spionaggio. Invece, per quanto riguarda le proteste di “Donna, vita, libertà”, sono stati segnalati 500 manifestanti uccisi, fra questi ci sarebbero anche 68 bambini. Indagano su queste morti solo i gruppi internazionali che si battono per i diritti umani. A marzo, inoltre, i media iraniani hanno riferito dell'avvelenamento di ragazze in almeno 58 scuole e in 10 province del Paese. Le autorità avevano promesso di indagare, ma non hanno mai fornito alcuna spiegazione concreta su quanto sia accaduto. In carcere, oltre a migliaia di manifestanti, sono finiti anche molti intellettuali, professori, giornalisti e oppositori politici. Alcuni sono stati uccisi, molti si sono suicidati. Contro il dissenso, la repressione è diventata "ancora più dura" denuncia Amnesty International che lancia un appello: “È indispensabile che gli organi di giustizia degli Stati avviino indagini sui crimini commessi dalle autorità iraniane attraverso il principio della giurisdizione universale”.