Libano al collasso e un attacco congiunto a Israele. Ecco lo scenario peggiore

Da grave a pessimo. Ci sono vari scenari che si presentano agli analisti che studiano l’area del Medio Oriente in queste ore, e nessuno è rassicurante. E, per quanto possa sembrare paradossale, in gran parte la gravità della situazione dipende dalle scelte che prenderà la Repubblica Islamica dell’Iran. Perché una sua risposta, all’indomani della morte del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, è scontata. Così la pensa Nicola Pedde, direttore dell’IGS, l’Institute for Global Studies, l’istituto di ricerca indipendente sulla sicurezza internazionale. Insomma, tutto dipende da come si muoveranno gli ayatollah. La palla è a loro. Ed è inutile dire che l’attenzione internazionale adesso è concentrata sul Libano, che potrebbe essere la prima vittima di questa crisi. Se la risposta dell’Iran sarà una “strada autonoma”, il Libano potrebbe essere parzialmente risparmiato. Se invece Hezbollah dovesse partecipare all’offensiva iraniana, colpendo insieme ad altri alleati regionali, il Paese dei Cedri sarà inevitabilmente interessato da una risposta israeliana. Il rischio, quindi, è che il sud del Libano – sotto il controllo di Hezbollah – potrebbe diventare nuovamente un campo di battaglia, come nel 2006? Secondo Pedde, non solo. L’instabilità può dilagare in tutto il paese, trasformandolo in un caos come quello degli anni 70 e 80. La macedonia impazzita delle varie etnie l’una contro l’altra. Sì, buona parte delle comunità sunnite, una parte di quella cristiana e i drusi accusano Hezbollah - e una parte dei cristiani - di aver sabotato sistematicamente ogni tentativo di formare il nuovo governo di eleggere il presidente della Repubblica. Di aver innescato una di crisi che sta trascinando il Libano in direzione di una profonda crisi politica e potenzialmente militare con Israele. Questo esporrebbe a enormi rischi l’UNIFIL, il contingente ONU a guida italiana, dispiegato nella zona di confine tra Israele e Libano… La zona di confine a sud del Libano è quella di più alta tensione oggi. Ed è quella dove potrebbero concentrarsi la maggior parte degli attacchi. Anche perché è dove gli israeliani hanno più interesse a colpire gli avamposti di Hezbollah. In questa situazione si può leggere un po’ il paradosso di una missione che è stata concepita per gestire una determinata dinamica della crisi libanese, che era quella post conflittuale. Ci sono molti giudizi contrastanti sulla missione. C’è chi la descrive come un grande successo delle Nazioni Unite, come una missione che ha avuto un ruolo molto importante. Altri che l’hanno critica profondamente. In realtà le ragioni stanno da entrambe le parti. Si tratta di una missione creata per mantenere la pace e creare un dispositivo di interposizione. E, quindi, di assistenza delle forze armate libanesi con il compito di riprendere il controllo del Libano meridionale e di garantire il supporto per la stabilità e la pacificazione. Non è però una forza di intervento militare. Quindi, non può completare quel processo di disarmo nei confronti delle milizie di Hezbollah. Anche perché queste ultime sono dislocate in aree dove l’UNIFIL di fatto non ha capacità di accesso. E questo rispecchia da un lato il limite della missione UNIFIL, dall’altro l’instabilità complessiva del Libano. Nel mosaico libanese, già di per sé molto complesso, con la storica divisione in cristiani, musulmani sunniti e sciiti, i drusi si sono inseriti altri elementi a renderlo ancora più complicato. C’è una comunità palestinese di lunga permanenza che è quella sostanzialmente ospitata nei campi profughi in gran parte del Libano. Alcuni di questi - in particolare a Tiro e Sidone, nel sud del Libano - sono aree sostanzialmente al di fuori del controllo dell’autorità libanese. Ci sono delle strutture di governo autonomo e la presenza di gruppi palestinesi che oggi sono parte di un’espressione molto diversa rispetto a quelle tradizionali di Fatah e Hamas. Si sono formate all’interno di questi campi anche delle micro-realtà, molto più radicali rispetto a quelle tradizionalmente coinvolte nel conflitto con Israele come Hamas e Jihad Islamica. Da questi campi sono spesso partiti anche degli attacchi verso Israele contro lo stesso volere di Hezbollah. Quindi è un problema nel problema. Poi ci sono le comunità siriane, composte dai profughi che sono fuggiti dal paese dopo l’avvio delle ostilità del 2011. Oggi in Libano ci sono ufficialmente due milioni di siriani, la più alta percentuale di profughi al mondo. Ma sono un altro elemento instabilità, e in Libano c’è un ampio dibattito sulla necessità di rimpatriare queste comunità. Questo il contesto: da qui in poi, tutto dipende da come reagirà l’Iran. Perché una sua risposta viene considerata inevitabile. Ma potrebbe essere simbolica, dimostrativa, come nell’aprile scorso, all’indomani dell’attacco al consolato iraniano a Damasco? L’Iran è sempre stato abbastanza pragmatico nella gestione della sua risposta militare e ha sempre cercato di evitare l’escalation. Qui, paradossalmente, l’escalation regionale è qualcosa che nessuno vuole. Non la vuole Hezbollah, non la vuole l’Iran, non la vuole la Siria, non la vuole neanche una parte anche di Israele. E allora, chi la vuole? C’è una componente all’interno di questo governo israeliano che invece questa escalation la sta cercando. E la sta cercando per diverse ragioni, sia di politica, legata soprattutto al premier Netanyahu, sia perché c’è la percezione della necessità di risolvere una volta per tutte la “sorgente della minaccia”. Che altri non è se non la Repubblica Islamica dell’Iran. Diciamo che il trait d’union di questa di questa narrativa israeliana è: “sì, dobbiamo combattere Hamas e Hezbollah, ma se vogliamo risolvere il problema dobbiamo tagliare la testa del serpente”. E questa testa del serpente è l’Iran. Quindi stanno cercando in tutti modi di provocare un intervento diretto di Teheran nella prospettiva che si possa creare una coalizione internazionale per combatterlo. Questo è quel che vuole una parte di Israele. Le carte, però, ora sono in mano a Teheran… Il vero problema infatti, in questo momento, è che cosa vorrà fare Teheran: e ci sono quattro ipotesi, secondo me. Due, al momento, le ritengo meno probabili. La prima è una risposta simmetrica mirata a colpire individui politici o militari di Israele che possano rappresentare così una risposta eguale a ciò che è stato fatto a Teheran nell’uccisione di Haniyeh. Ma lo vedo molto difficile: la sicurezza di Israele è eccellente, non credo che sia alla portata degli iraniani. La seconda possibilità è un qualcosa di simile allo scorso aprile, quindi un evento simbolicamente importante dal punto di vista militare, ma molto limitato dal punto di vista degli effetti, e con un ampio preavviso che possa dare capacità di gestione. In quest’occasione lo ritengo abbastanza improbabile. Ci sono poi i due scenari peggiori: in primis un intervento dell’Iran senza i suoi alleati regionali. Un attacco massiccio per colpire infrastrutture militari. Credo che in questo caso sarebbe meno simbolico del passato e non così cauto sul produrre vittime. Lo scenario indiscutibilmente peggiore, infine, è quello di un attacco combinato insieme agli alleati regionali. Hezbollah libanesi, Hamas a Gaza e gli altri elementi di questa alleanza regionale: le unità siriane filoiraniane, le milizie irachene e, potenzialmente, gli Houthi yemeniti. Se questo dovesse accadere, sarebbe uno scenario veramente preoccupante, anche perché metterebbe in seria difficoltà la difesa israeliana. Giocoforza, si avrebbe l’intervento degli americani a sostegno di Israele, con la prospettiva di un allargamento che potrebbe a quel punto espandersi anche al di fuori del Levante Mediterraneo.

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