Lo scrittore Francesco Dimitri: "In Italia c'è una visione limitata del genere fantasy"

Francesco Dimitri è uno degli scrittori più interessanti e talentuosi del fantasy italiano. I suoi libri spaziano tra tantissimi temi, come la crescita, l’adolescenza, l’amore, la malattia e la morte, ma sono tutti collegati in qualche modo. Torna una visione precisa di magia e di immaginazione, e più che un’idea infantile e favolistica di fantastico Dimitri ne ha costruita una più realistica e concreta, fatta di parole, racconti e, soprattutto, intenzioni. I suoi libri vengono pubblicati in lingua inglese e poi ritradotti in italiano per il nostro mercato. Non tutti sono stampati dallo stesso editore: “Il bacio della buonanotte” è di Giunti, “L’età sottile” e “Alice nel Paese della vaporità” di Salani; “Pan”, che riscrive il mito di Peter Pan, è di Marsilio; Longanesi ha pubblicato “Il libro delle cose nascoste”. Alcuni sono introvabili; altri, invece, sono disponibili sia in versione fisica che digitale. Il punto, però, è la forza della voce che Dimitri ha saputo trovare in questi anni. Le sue storie sono intrise di mistero e di orrore, e allo stesso tempo conservano la freschezza e la bellezza dei grandi racconti di avventura. Dentro c’è il nostro presente: l’Italia, i quartieri delle grandi città, il mare; le dinamiche che uniscono, o che dividono, le famiglie. I suoi protagonisti sono persone normali che si ritrovano in situazioni estreme e che devono capire come fare per superarle. Quella di Dimitri è letteratura per adulti. Ed è ricca, sfaccettata e ben costruita. Il genere è un mezzo, un ponte, qualcosa per avvicinare i lettori e appassionarli; ma è pure l’ossatura stessa di ciò che Dimitri vuole offrire al suo pubblico. Un buon romanzo, dice, deve parlare al cuore. Quanto è difficile trasformare la scrittura nella propria quotidianità? Quella dello scrittore è una carriera che richiede tante abilità diverse, e ne richiede una, in particolare, che è praticamente impossibile da imparare: la fortuna. In che senso? A volte, è fondamentale incontrare le persone giuste al momento giusto. E non è una cosa che puoi capire come fare o che, in qualche modo, puoi prevedere. Perché ha scelto il fantastico come genere di riferimento? Io credo che ci siano due risposte. La prima, e forse la più ovvia, è che il fantastico ci ricorda costantemente che la realtà in cui ci troviamo e che stiamo vivendo non è l’unica; che c’è sempre la possibilità di cambiare, di scegliere e di trovare delle alternative. L’Italia è un Paese che, per tanto tempo, è stato fortemente conservatore. È un Paese in cui la classe intellettuale di riferimento spesso manca di una cultura internazionale e che ha quasi paura del confronto con altri paesi e altre tradizioni, e che ha vissuto di rendita in uno spazio che si è costruita da sola. Così facendo, però, si tende a dimenticare una cosa. Mi dica. Che esiste un pubblico di riferimento, a volte molto giovane, che è affamato e desideroso di leggere storie nuove, più vicine – se vuole – a una sensibilità più internazionale. Pensi, per esempio, a Licia Troisi: ha venduto, e vende, tantissime copie tra i ragazzi e ne ha avvicinati molti alla lettura. Eppure per diverso tempo è stata quasi snobbata in modo violento da un particolare sistema. Qual è, invece, la seconda risposta? L’Italia è un Paese che, purtroppo, vive ancora sotto la forte influenza della Chiesa cattolica. Spesso, il Vaticano ha il controllo di un certo immaginario. Quando andiamo a scuola, abbiamo la nostra ora di religione che verte, il più delle volte, sugli insegnamenti e sulla storia del cattolicesimo. E se ci riflettiamo, per un Paese occidentale moderno, è una cosa piuttosto assurda. Volenti o nolenti, questa presenza tende a influenzare il nostro modo di pensare. E con questo, attenzione, non voglio dire che ci sia un complotto: dico solo che è così che funziona, che è così che siamo stati cresciuti. Perché, allora, ha provato a scardinare questa tendenza? In generale, non amo molto che mi sia detto che cosa devo fare. Ho 43 anni, ma dentro di me sento di essere ancora un adolescente per determinati aspetti. Se vogliamo aprirci a un vero cambiamento, se vogliamo imparare a vedere l’altro e ad assecondare la nostra empatia, il fantastico può rappresentare una chiave di volta molto importante. Personalmente, sono sempre stato affascinato dalla possibilità di affidarmi completamente alla scienza e di pensare, nello stesso istante, a una dimensione dove le leggi della fisica non hanno alcun senso. Ciò che mi piace è il dubbio. E il fantastico è un modo per esplorare e indagare i dubbi che ho, e magari anche per condividerli con gli altri. Uno dei temi principali della sua produzione come scrittore è il paganesimo. Si parla spesso delle radici cristiane dei paesi europei. Un po’ meno, invece, delle radici pagane, che sono molto più antiche e che, in qualche modo, sono sopravvissute fino a oggi. Il paganesimo, prima ancora di essere una religione, è un punto di vista sul mondo. E che cosa dice questo punto di vista? Innanzitutto che il corpo è centrale e che conta. E che il metafisico, a sua volta, ha una sua consistenza. È un punto di vista che ci ricorda che la natura non è banalmente il nostro giardino, ma è qualcosa con cui dovremmo confrontarci alla pari e in modo rispettoso. E questi elementi sono presenti nella mitologia europea, nella mitologia celtica e nella mitologia mediterranea. E anche nella mitologia russa. E a me, queste radici, piace recuperarle. Proprio per creare storie e racconti più profondi. Per fare lo scrittore, però, lei ha lasciato l’Italia. Sento di essere vicino a una tradizione culturale che in parte è italiana e in parte, in gran parte anzi, anglosassone. Sono cresciuto leggendo i grandi autori del fantastico inglese e americano. E a un certo punto, mi è venuta voglia di provare a seguire la loro stessa strada. Nel 2008 non parlavo nemmeno una parola di inglese, ma decisi comunque di partire per imparare a scrivere in inglese. Ero con la mia fidanzata, che oggi è mia moglie. Partii senza nessuna certezza; partii per provarci. E che cosa ha capito? Che ci sono due mercati, due industrie, profondamente diverse. E che il mercato inglese ha un rispetto maggiore nei confronti degli scrittori fantasy. E attenzione: non mi riferisco solo agli addetti ai lavori, ma proprio alla percezione più generale e diffusa. Le persone non giudicano, come invece può succedere in Italia, gli scrittori fantasy come scrittori di serie B. Glielo dico perché è capitato anche a me, con amici e parenti. Per me la narrativa deve dare qualcosa di più; non può limitarsi, diciamo così, a riprendere e a riproporre il reale. Fa ancora fatica a farsi spazio nell’editoria italiana? I miei ultimi due romanzi, usciti in lingua inglese, non sono ancora stati pubblicati in Italia. Quello che penso è che in Italia ci sia una visione un po’ limitata del fantastico. Da una parte, viene considerato come letteratura per ragazzi. E ci sta ed è una cosa molto bella, perché significa che c’è una generazione di lettori molto più interessata rispetto, per esempio, alla mia. E poi manca una classe di giornalisti e di critici preparata sul fantastico. Ci sono, certo, ma sono pochi. E sostenere una produzione del fantastico per adulti, in questo modo, diventa difficilissimo. Nei suoi libri, c’è un universo narrativo condiviso: tornano riferimenti, spunti, nomi e personaggi. Lei lavora provando a tenere sempre tutto insieme oppure questi ponti tematici si creano in modo del tutto indipendente? Credo che esistano due tipi di scrittori. Gli architetti e gli archeologi. Gli architetti costruiscono, gli archeologi trovano. Sono due approcci diversi. Non ce n’è uno migliore o uno peggiore. Ci sono grandissimi scrittori architetti e grandissimi scrittori archeologi. Lei che tipo di scrittore è? Principalmente archeologo. Mi piace scoprire le cose mentre scrivo. E mi piace lasciarmi guidare da un’idea di umore nel racconto. E poi è vero, tendo a collegare tutte le mie storie per dare un senso di realismo a chi legge. Un romanzo deve catturarti. Se non ci riesce, se rimane in superficie, se non intacca minimamente la corazza del lettore, ha fallito. Deve parlare al cuore e alla pancia. Deve sedurre. Le sue storie sono principalmente ambientate nell’Inghilterra contemporanea e in Italia, tra Roma e la Puglia. Quanto è importante conoscere i luoghi per poterli raccontare? Molto. Se il luogo è reale, deve essere un luogo che hai vissuto e che conosci molto bene. La scrittura è, innanzitutto, osservazione. Il nostro è un mestiere che in alcuni momenti ricorda una scimmia ammaestrata: imito quello che vedo; imparo quello che leggo. La difficoltà sta nell’osservazione. E se non hai avuto modo di osservare un posto da vicino, come puoi raccontarlo con la tua voce? Altro discorso, invece, è quello sui luoghi immaginari. In questo periodo, dopo molti anni, sto lavorando a un nuovo romanzo in italiano. È un progetto a cui tengo molto. Racconta l'inizio dell'amicizia tra Sandokan e Yanez. Uscirà con Rizzoli. È una storia che non è ambientata in un luogo reale. Emilio Salgari, in India, non c’è mai andato. E così il luogo in cui ci troviamo non è un luogo reale, ma salgariano. E ha le sue regole. Sempre nei suoi libri, a volte tornano elementi reali, che appartengono alla nostra quotidianità. Per esempio, c’è un personaggio, l’Uomo in Frac, che è un riferimento a Modugno e viene anche detto. Credo che questi elementi possano aiutare ulteriormente il lettore a immergersi nella storia. Se un giorno mi dovessi ritrovare faccia a faccia una fata, sarebbe una delusione. Quando incontriamo qualcosa che abbiamo immaginato per tutta la vita tenderà, volenti o nolenti, a perdere la sua forza di idea e a diventare l’ennesima creatura. Quando invece vedi qualcosa con la coda nell’occhio, e non la capisci e non la metti a fuoco, ti inquieta e ti fa paura. Inserire questi elementi, per me, è un modo per collegarsi a un certo spazio della nostra mente. Parlare in un libro fantasy di Modugno è una nota di stranezza. E una nota di stranezza, nelle mie intenzioni, crea stupore e magia. Se scrivi di fantastico, devi farlo sentire. Voglio far creare al lettore che il mondo di cui sta leggendo sia molto più grande. Per Ursula K. Le Guin, autrice della saga di “Terramare”, la magia coincideva con le parole e, in particolare, con i nomi delle cose. Per lei con che cosa coincide? Con la volontà e l’immaginazione. Le Guin si rifaceva a forme di magia molto antica, come quella egiziana, dove le parole erano centrali. Io mi rifaccio a un’idea di magia che si è diffusa nel ventesimo secolo e che ha qualcosa a che fare anche con la psicoanalisi e con il nostro inconscio. E quindi c’è questa visione secondo cui l’immaginazione possa davvero cambiare il mondo. In un certo senso, questa visione, che tiene insieme sogno, volontà e immaginazione, ricorda il lavoro dello scrittore. Quando io scrivo, non ricordo mai i miei sogni. Perché sogno a occhi aperti. Passo le mie giornate sospeso. Non voglio dire cose da pseudo-artista, ma io mi diverto quando scrivo e mi immergo completamente nella scrittura. Ed è questa, secondo me, la grande bellezza di questo mestiere: ti permette di seguire le tue visioni. E credo che sia una cosa che può tornare utile a chiunque, non solo a chi scrive. Roberto Recchioni, con il suo “YA”, ha esaltato le storie e il loro potere. È qualcosa che crede ritorni anche nei suoi libri? Raccontare storie è sempre stato una sorta di magia. Ci sono classi di incantesimi, ben identificati e descritti, diffusi in tutto il mondo. E questa idea che ci sia un potere reale nel raccontare le storie credo che sia condivisa da tutti gli scrittori. Ha un suo peso anche nella nostra attualità. Pensiamo a quello che è successo in America, con il racconto che i repubblicani hanno costruito e che si basa spesso su elementi totalmente fantasiosi. Con quel racconto, hanno cambiato la realtà e hanno battuto alle elezioni i democratici. Nel bene o nel male, sono sempre le storie a vincere. Nel 2017 è uscito un film ispirato a un suo libro, “La ragazza dei miei sogni”. Che rapporto ha con gli adattamenti? È geloso dei suoi libri, vuole avere l’ultima parola? A me piace poter partecipare alla discussione, ma non voglio avere l’ultima parola. Quel film fu molto sfortunato. Al di là di qualunque retorica, credo che una volta che i libri vengono pubblicati appartengano a chi li legge. E spesso chi si occupa di un adattamento sa molte più cose di uno scrittore per riuscire a ottenere un buon risultato. Io cerco il confronto. Ho le mie idee, mi piace metterle in campo. Ma non voglio impormi. Può essere dannoso. Qual è la regola più importante per uno scrittore? Ricordarsi che la scrittura deve essere una gioia. E questo non significa non avere mai problemi o blocchi; significa però riappropriarsi di una dimensione precisa di divertimento. Non capisco quegli scrittori che dicono di soffrire quando scrivono. Perché lo fanno, allora? Anche davanti alla frustrazione o all’ansia, ricordarsi della gioia che porta la scrittura può aiutare.

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