Vincenzo Latronico: “Noi Millennial credevamo nel sogno europeo”

Ne "Le Perfezioni" ha raccontato gli expat stretti nella morsa dell'insoddisfazione e della ricerca di senso. Poi con “La chiave di Berlino” , un saggio autobiografico edito da Einaudi che può essere letto anche come malinconica guida di viaggio, è ritornato sulla scelta di espatriare e su quella fatta da tanti altri come lui, tra necessità, aspirazione alla libertà e desiderio di fuggire da un futuro già apparentemente determinato. In Germania ha vissuto fino a pochi mesi fa. Ora, però, è tornato a Milano, la città in cui è cresciuto, e sta riplasmando la sua identità: non è più lo scrittore italiano a Berlino, ma lo scrittore italiano che è stato tanto tempo a Berlino. E mentre ragiona sull'impatto di tutto questo sulla propria sensibilità artistica e sul prossimo libro, Vincenzo Latronico, classe 1983, ha rifatto le valigie per partire alla volta della Fiera del libro di Francoforte, la rassegna internazionale più importante del settore, che ha visto quest’anno l'Italia nel ruolo di ospite d'onore. È stato, infatti, tra i 90 scrittori invitati a far parte della delegazione ufficiale e, non un dettaglio, tra i 41 che hanno criticato duramente il mancato invito a Roberto Saviano e il programma politico-culturale messo insieme dal Presidente Aie Innocenzo Cipolletta e dal commissario straordinario Mauro Mazza. Nella parabola di Vincenzo Latronico c’è la crisi del sogno europeo, l’eterna giovinezza dei Millennial che a 40 anni continuano a essere definiti ragazzi e l’urgenza di sospendere, almeno per ora, il racconto di finzione. Non è la sua prima Buchmesse. No, però mi era capitato di esserci per presentare un mio libro. Quest'anno l'ordine di grandezza è diverso, visto il tipo di attenzione che c'è sull'Italia. A proposito di questo, lei fa parte della delegazione dei 90 letterati italiani invitati, ma sta partecipando anche al controprogramma politico. Sì, sono stato tra i firmatari della lettera di protesta e ho partecipato e tenuto incontri all'interno di quello che è stato chiamato controprogramma politico. Qual è stato il clima rispetto a questa divisione e a questa resistenza che avete posto? Fra gli autori mi sembra che ci sia stata molta voglia di parlare di una serie di temi sui quali nel programma ufficiale non c'era spazio. Il pubblico è molto interessato, c'è tantissima solidarietà da parte dei tedeschi, perché ovviamente certe questioni politiche sono un argomento anche in Germania. Diciamo che ci sono specularità fra quello che succede in Italia e quello che potrebbe succedere in Germania anche rispetto a un certo rafforzamento della destra tedesca? Da questo punto di vista sì, dal punto di vista invece del livello del discorso pubblico mi sembra che la Germania non sia ancora arrivata a livello dell'Italia, in cui ci sono scrittrici e scrittori che vengono disinvitati, se non vogliamo usare la parola censurati, dalla televisione. Ci sono scrittori in Italia che vedono il posto di lavoro a rischio per le proprie posizioni politiche e quindi in qualche modo la Germania guarda all'Italia come un Paese dove stanno succedendo cose che sono abbastanza allarmanti. Diciamo siamo una proiezione distopica di quello che potrebbe succedere altrove? Sì, nel piccolo. Si è parlato tanto della Buchmesse con l'Italia ospite d’onore dopo 36 anni. Abbiamo giocato male un’opportunità? Secondo me ci sono due piani, bisogna separare un po' i discorsi. Il primo è il lato industriale della Fiera che è un aspetto che funziona, che è un aspetto che in larga misura dipende dai programmi culturali, dai governi e così via. La Buchmesse è innanzitutto uno spazio dove ci si scambiano diritti d'autore per pubblicare all'estero e, anche soltanto per il tipo di attenzione che c'è sull'Italia, sono abbastanza certo che questo creerà una impennata di libri italiani prodotti fuori dai confini. Già è successo che gli aspetti di questa iniziativa che non sono direttamente decisi dal governo, ma dall'apparato di funzionamento dello Stato, sono andati molto bene. Ad esempio, i fondi per la traduzione di opere italiane all'estero, gestiti in parte dal Cepell, il Centro per il libro e la lettura, e in parte dal ministero degli Affari esteri, sono aumentati nel 2023 rispetto agli anni precedenti, proprio per arrivare a Francoforte con una grande selezione di titoli. Questo è un obiettivo raggiunto. In Germania vengono tradotti in questo momento tantissimi esordienti, cosa che pochi anni fa non succedeva, cosa che per me non era accaduta al momento del mio esordio nel 2008. Ma oltre agli aspetti commerciali, editoriali e industriali, abbiamo perso l’occasione di promuovere un discorso di vero scambio culturale. Il programma del Padiglione Italia ha ospiti ottimi e interessanti, però siamo stati un po' rinchiusi in questa specie di recinto autoreferenziale brandizzato che si chiama "Radici nel futuro", senza veramente costruire quello che poteva essere un discorso internazionale a più voci. Il direttore di Aie Cipolletta dice di aver rimediato all'errore, creando delle occasioni di dibattito e dei tavoli di incontro internazionali e che quindi alla fine le richieste contenute nella vostra lettera sono state accolte. Dopo che è stata pubblicata questa lettera, ci ha offerto uno spazio, ma è stato a noi organizzarlo, ad esempio c'è stato un bellissimo incontro tra Elena Janeczek, Donatella Di Pietrantonio e una grandissima scrittrice tedesca. Un incontro dal titolo "Il ritorno dei fantasmi", fantasmi politici del passato che sembravano negli anni Novanta definitivamente superati. L'incontro si è svolto all'interno di uno spazio messoci a disposizione dall’Aie, ma è stato organizzato, pensato, concepito dal gruppo di scrittori che ha sollevato la questione. Adesso non è tanto interessante per me stare a distribuire le colpe, ma il programma era stato impostato in un modo che lasciava molto a desiderare, a cominciare dal fatto che alcuni autori importantissimi in Italia, come Roberto Saviano, non erano stati invitati, chiaramente per ragioni politiche. In un modo o nell'altro siamo arrivati a risolvere questa situazione. Poteva andare meglio? Sì, di sicuro, tutto potrebbe andare meglio, però secondo me grazie a questo intervento in questo momento il programma è stato solido. Mercoledì c'è stato il primo incontro di quelli fatti allo stand di Pen Berlin con Paolo Giordano: è stato pienissimo e molto partecipato. Gli scrittori italiani Millennial ricevono la giusta attenzione? Mi sembra che ci siano delle voci davvero molto forti e molto interessanti di tantissimi generi diversi. Il merito va anche al grandissimo interesse internazionale che c'è stato per la letteratura italiana dopo il fenomeno di Elena Ferrante: appartengo a una generazione fortunata che ha potuto pubblicare, che ha potuto crescere, che ha potuto beneficiare di un'attenzione globale, che ha rappresentato qualcosa di nuovo. Naturalmente è una generazione molto variegata, ci sono scrittori di tantissimi generi, di tantissimi orientamenti diversi. Penso a Claudia Durastanti, Veronica Raimo, Giulia Caminito, Paolo Giordano: una generazione ricca, interessante, sono molto contento di questo. E se parliamo del racconto che si fa di questa generazione, pensa che veniate raccontati nel modo giusto? La mia impressione è che non importa quante pubblicazioni abbiano all’attivo e quanti anni siano passati dall’esordio, i Millennial vengono sempre descritti come scrittori nuovi o eterni esordienti. In qualche modo percepisco questo problema. Continuano a definirmi “giovane scrittore”, anche se ho quarant’anni, sono vicino all'età in cui Obama era Presidente degli Stati Uniti d'America. Questo secondo me ha a che fare con l'Italia, è una cosa che in altri Paesi non succede. A 40 anni si è considerati dei membri a pieno titolo della società degli adulti, questa è una cosa che per varie ragioni, alcune positive, altre meno, da noi non accade. Quali sono i motivi principali? Non possiamo ignorare tra le ragioni l'incredibile ineguaglianza generazionale che c'è in termini di reddito, in termini di possibilità di ottenere una casa, di possibilità di costruire una famiglia, siamo un po' mantenuti in una giovinezza indotta dal modo in cui è strutturata l'economia italiana. Ultimamente ho scritto un approfondimento su Internazionale sui problemi del mercato immobiliare inaccessibile. Il direttore di un’agenzia mi ha segnalato un dato veramente allarmante: ormai sono i genitori dei quarantenni a venire da lui a comprare o ad affittare, e si parla di quarantenni, quindi persone con figli, persone con carriere avviate. Più della metà di loro ha bisogno di una garanzia dei genitori per il mutuo o per l’affitto. Non è che siamo ragazzi per nostra immaturità congenita, siamo tenuti in questo stato da una società che rende molto difficile l'emancipazione. Questa emergenza è qualcosa che sta veramente passando come uno tsunami su tutte le grandi città del mondo sviluppato. Come si ridiventa padroni e protagonisti di questo racconto? Secondo me, avere interlocutori all'estero è una cosa che ti aiuta a vederti in un modo diverso. L'altro giorno una persona mi ha taggato in una story di Instagram per parlare del mio libro e mi ha definito "ragazzo". Ovviamente sono molto lusingato, mi fa piacere, però qui in Germania, dove ho vissuto fino a un anno fa, nessuno mi avrebbe chiamato ragazzo, mi chiamano “Mann”, mi chiamano uomo, ed è una cosa culturalmente interessante. Questo fattore internazionale è importante. Nasci a Roma, la tua città però è Milano, perché è lì che sei cresciuto, e poi c'è stata Berlino, con delle parentesi francesi e canadesi. Tutto questo poi si ritrova nelle cose che scrivi. A quale città, a quale mondo appartieni e ti senti di appartenere adesso? È strano perché penso che a vent’anni, a trent’anni la risposta a questa domanda sarebbe stata: mi sento di appartenere all'Europa. Questa appartenenza è stata il senso anche del mio trasferimento a Berlino. Volevo dare credito a quello che vent’anni fa sembrava il destino inevitabile del progetto politico europeo. Si andava verso un'unificazione sempre maggiore, siamo cresciuti con le frontiere abbattute, siamo cresciuti con l’adozione dell'euro. Improvvisamente, non bisognava più cambiare il denaro, siamo cresciuti con i voli low cost, con le videochiamate grazie alle quali eravamo lontani ma ci sentivamo vicini, si era aperta la stagione dei referendum per la Costituzione unica europea. E quindi avrei risposto: mi sento uno scrittore europeo. Perché forse a vent’anni, forse ingenuamente, pensavo che le specificità nazionali, le frontiere sarebbero state destinate a sgretolarsi. in qualche modo vedevo Berlino come la città destinata a diventare la capitale della cultura europea, non nel senso burocratico, ma proprio nel senso fisico, come si può dire che New York sia la capitale della cultura statunitense. Adesso, venti anni dopo, vediamo che questa situazione chiaramente non si è determinata, addirittura c'è stato Brexit, si continua a parlare di difficoltà con l'Euro, quindi adesso, non so se per fortuna o mio malgrado o semplicemente per come si sono determinate le situazioni politiche, mi sento italiano e mi ero disabituato a questa sensazione. Adesso sei anche tornato in Italia, che impatto ha avuto questo ritorno su di te e quale pensi possa essere l'impatto su quello che scriverai in futuro? Sì, sono tornato da pochi mesi. A Milano. Questo non lo so ancora, devo dire che è ancora presto. Sono contento di sentirmi cittadino del Paese in cui sono nato. Una sensazione nuova. La posizione dell'espatriato è una posizione che ha qualcosa di dolce e ha qualcosa di superficiale, perché è molto responsabilizzante: non sei un vero cittadino, in qualche modo quello che succede nel Paese che ti dà ospitalità lo osservi dall'esterno. Vivi quel Paese, vivi in quel Paese, ma non puoi influenzarlo, non voti e quindi in qualche modo non lo senti come una tua responsabilità. E adesso che sei tornato senti un peso maggiore anche rispetto al periodo e alla congiuntura politica che stiamo vivendo? Non lo so, non ricordo un momento in cui non fosse un peso il mio essere italiano. Quando mi sono trasferito in Germania nel 2008-2009, ogni volta che finiva una cena, a un certo punto c'era qualcuno che mi chiedeva del “bunga bunga”. La politica italiana è sempre stata abbastanza complicata, questo periodo certo non è molto roseo. Che salto è stato fatto da “Le perfezioni” a “La chiave di Berlino”, due libri che si dice possano essere letti un po' come se fossero una dilogia? “Le perfezioni” sono arrivate dopo molti anni in cui non ho pubblicato niente, però ho scritto molto e in quella fase ho sviluppato una sorta di sfiducia nei confronti della narrativa di finzione. “Le perfezioni” è un romanzo che ho scritto con grandissimo piacere, però ogni volta che imbastivo la trama, costruivo dei personaggi, raccontavo le loro vite, sentivo di fare qualcosa di falso, non autentico. Mi sentivo un po' fuori fuoco. ‘Perché inventare dei burattini per mettere in scena un tema che mi sta a cuore?’, ho cominciato a chiedermi. Non è un caso che le Perfezioni sia un romanzo quasi per modo di dire, nel senso che poi è un romanzo che non ha dialoghi, ha dei personaggi solo abbozzati, ha una trama che si legge in filigrana, ma che non si svolge veramente sulla pagina, e mi sembra che ne "La chiave di Berlino" faccio un passo in più, dicendo: 'Vabbè, ma a questo punto se le scarpe sono così strette, vai a piedi nudi, se la scarpa della finzione non ti calza bene, racconta le cose come sono". E devo dire che ho trovato una dimensione di libertà e di onestà nel racconto di non finzione, di cui effettivamente sentivo la mancanza. Non so se questo significa che mi avvierò poi a scrivere un prossimo libro che non sarà un romanzo, sinceramente ho fatto ancora soltanto dei primi passi, però è qualcosa che mi ha molto colpito, sentire questo progressivo allontanamento dall'invenzione delle storie. Il tuo ingresso nella vita adulta è stato segnato da un incidente il giorno prima dell’orale di maturità, un episodio di cui parli spesso. Ce ne sono stati altri? In realtà forse l'iniziazione è ancora precedente all’incidente, è stata a 16-17 anni. La mia scuola è stata chiamata a far parte della giuria di un premio e io sono stato inviato come rappresentante del mio liceo per far parte di questa giuria. La sera della premiazione sono finito a parlare con Elisabetta Sgarbi che con il suo guizzo anticonformista, che è poi il modo in cui lei esiste nel mondo, ha proposto a me sedicenne di fare lo stage alla casa editrice Bompiani nei pomeriggi dopo la scuola, e in effetti ho cominciato così. In qualche modo il mio momento di "sliding doors" è stato quello, non so che strada avrei preso se questo fatto non fosse accaduto, ma Bompiani è ancora il mio editore e sono passati 24 anni.