Perché l’Uruguay è un modello per l’Europa spiegato dallo scrittore Pablo Casacuberta

Non ama le definizioni Pablo Casacuberta, uruguaiano classe ‘69. A cominciare da quella di “scrittore”, che non rende ragione delle sue mille identità - Casacuberta è anche regista e artista visivo - e lo fa sentire incastrato. “Ai ragazzi dico sempre di non lasciare che nessun aspetto della vita diventi un’etichetta e di aspirare ad essere tante cose diverse. Per essere liberi dobbiamo avere il coraggio di prendere strade inaspettate e abbandonare il sentiero già tracciato”. Non è un caso se il suo ultimo romanzo “Qui e ora”, edito da Polidoro, racconta del passaggio dall’adolescenza all'età adulta e ha come protagonista un ragazzo che scopre come la vita sia fluida e possa prendere traiettorie inaspettate nell’arco di sole 48 ore. Con Casacuberta abbiamo parlato di letteratura latinoamericana - ma anche questa definizione per Casacuberta deve essere riformata - e dell’eccentrico e strano - nel senso di diverso e unico - Uruguay. “Raro” è l’aggettivo spagnolo che viene spesso accostato a questo Paese incastonato tra Argentina e Brasile, che tutto il mondo, vuoi per la politica, vuoi per la velocità con cui ha bruciato certe tappe, osserva da sempre con una certa curiosità. Perché non le piace la definizione “letteratura latinoamericana”? L'America Latina è una circostanza estremamente varia: una circostanza geografica oltre che culturale, perché è uno spazio sterminato. 680 milioni di persone equivalgono a una molteplicità di voci. La definizione "America Latina" venne promossa dai francesi che invasero il Messico nell'Ottocento. Volevano dare un senso logico alla loro operazione coloniale e trovare un'alternativa al termine “Hispanoamérica” che dava conto solo dell'influenza spagnola. Parlare di “Latinoamérica” giustificava meglio la loro presenza. L’America Latina non è una, ma tanti Paesi, con tradizioni distinte. La varietà ambientale e antropologica si rispecchia anche nella letteratura. Per questo utilizzare un unico aggettivo per farci entrare dentro tutto è restrittivo e schiaccia questa complessità. Due elementi che non possiamo ignorare sono il forte background europeo e la natura di luogo di transito: la mescolanza tra culture. Ma non è sufficiente per poter parlare di letteratura latinoamericana come categoria esaustiva. E l’Uruguay? Ci spiega la rareza uruguaya, a parole sue? L’Uruguay è un Paese raro, perché ha molte particolarità. La prima è che è composito a livello demografico. “Demografia” è una parola chiave, perché è un Paese che ha una popolazione piccola. Parliamo di tre milioni e mezzo di persone, eppure la produzione culturale è vastissima. Non solo letteratura ma anche cinema: sforniamo 40 film all'anno che è un’infinità, viste le dimensioni dello Stato. La letteratura ha la tendenza a prestare attenzione a quello che è universale e non a restare ferma nel locale. Un Paese che ha una popolazione così piccola è obbligato a tenere lo sguardo largo. Perché? L’Uruguay non ha avuto la stessa storia del resto dell'America Centrale e del Sud. La colonizzazione europea è stata meno forte. Si popolò in termini demografici nel XX secolo, un momento in cui era profondamente globalizzata la circolazione di idee. L'attenzione verso il resto del mondo è sempre stata forte, perché l'Uruguay accolse rifugiati che scappavano da diverse guerre e ha assorbito in questo modo ideologie alternative e antagoniste. È diventato un piccolo banco di prova delle politiche pubbliche: è noto che da noi ci siano delle leggi di avanguardia. Molte cose di cui si sta discutendo ora in Europa in Uruguay sono già realtà da tempo. Quali sono queste conquiste che ritiene più significative? Siamo stati il primo Paese a legalizzare e regolamentare la produzione e la vendita di cannabis. E poi l’approvazione del divorzio per sola volontà della donna che risale al 1913 e il voto alle donne che arrivò in Uruguay nel 1917, molto prima che in Francia e Spagna. Qual è il segreto? L’Uruguay ha potuto costruire consenso su alcune politiche che si considerano trasversali e per questo sono state condivise da tutto lo spettro politico. Faccio un esempio: l'energia elettrica è ottenuta per oltre il 90% da fonti rinnovabili e si produce per via eolica o solare, ma questa non viene considerata una battaglia di sinistra. Non c'è dunque un segmento politico che la approvi o un altro che la osteggi: la questione ecologica è un patrimonio comune. Per semplificare direi che l'Uruguay tende verso il centro, è il Paese meno polarizzato di tutta l’America Latina, in un mondo sempre più polarizzato. Se penso all'Uruguay, la prima cosa che mi viene in mente è Pepe Mujica. E penso di non essere la sola… José Mujica è stato una figura molto importante nel processo di internazionalizzazione del Paese. Ha fatto conoscere al mondo la rareza uruguaya, ma quello che molti non sanno è che non fu il primo, né l'ultimo a vivere a casa sua e a rifiutare la residenza presidenziale. C'è una tradizione di sobrietà che ha caratterizzato tutto l'arco democratico. Anche l'Uruguay, però, ha conosciuto la dittatura. Sì, ha avuto una dittatura che è durata 11 anni, ma è stata una parentesi . Dopo la dittatura, la politica è stata caratterizzata da stabilità della democrazia e da relazioni abbastanza virtuose tra partiti. Nel tentativo di recuperare quello che la dittatura aveva cancellato, si è rafforzata la consapevolezza di aver qualcosa da dire al mondo. Il processo di stabilità politica ed economica è un modello, non è comune per un piccolo Paese latinoamericano essere un esempio per il resto del mondo su tanti fronti. Non abbiamo ancora nominato i programmi educativi di introduzione precoce della tecnologia, anche questo è un altro terreno di conquista. C’è un’espressione o una parola uruguaiana che le piace particolarmente? “Vamo’ arriba” perché è polivalente. Può significare “grazie”, “di niente”; “avanti”. È quella che rappresenta meglio l’essenza del nostro popolo che è l’incontro verso l’altro, una vera e propria vocazione. “Vamo’ arriba” rivela la parte migliore dell’essere uruguaiani.