"Ho scelto come anello nuziale una rana ad altorilievo perché è un animale di terra e di acqua, sempre pronto al salto, quindi al cambiamento, rappresenta bene la queerness in natura", rivela la scrittrice in un'intervista a Vanity Fair
Michela Murgia si confessa a tutto tondo a Vanity Fair, nel numero in edicola oggi diretto dalla scrittrice sarda. Dalla sua rivoluzione dell’amore al suo passato, dal difficile rapporto con il padre alla sua famiglia queer fino al racconto della sua malattia e ai pensieri sulla morte, che non le fa paura. Parla anche dei suoi “figli” gli unici su cui mantiene un certo riserbo per rispettare le loro volontà. “Non voglio nominare tutti perché non tutti hanno la stessa attitudine all’esposizione. All’interno della nostra relazione ci sono quattro figli. Ciascuno di loro si crede figlio unico rispetto a me. Sono entrati nella mia vita in tempi diversi. Da Raphael, il più piccolo, agli altri. Stanno con me da quasi vent’anni". Nel corso della lunga intervista Murgia parla anche di Alessandro “che ho incontrato quando aveva 16 anni. E Francesco che ne aveva 18. Ti chiedono loro, ti dicono fammi stare. Stiamo. La questione di essere famiglia ha a che fare con lo stare. Stai nella mia vita”. Nella grande famiglia di Murgia ci sono, oltre al futuro marito Lorenzo Terenzi, anche il cantante lirico Francesco Leone, l'attivista Michele Anghileri e tante donne a lei molto legate, come le scrittrici Chiara Valerio e Chiara Tagliaferri.
"Una rana come anello nuziale"
Perché il nucleo di Murgia è formato da una famiglia queer ovvero una forma di relazione stabile che non rientra nella famiglia tradizionale riconosciuta dalla legge italiana. “Mi piace definirla ibrida, la mia famiglia – spiega Murgia –. Ho scelto come anello nuziale una rana ad altorilievo perché è un animale di terra e di acqua, sempre pronto al salto, quindi al cambiamento, rappresenta bene la queerness in natura. Non voglio chiamare la mia famiglia non convenzionale, perché sono sicura che nella realtà queste famiglie siano già diffusissime: le persone hanno esigenze che gestiscono inventandosi rapporti che possano soddisfarle. Non esiste un nome per questa creatività degli affetti: il problema è togliere gli aggettivi e declinare le famiglie finalmente al plurale”.
La volontà conta quanto il sangue
“L’idea della famiglia queer è invece quella di fondare le sue relazioni sullo Ius Voluntatis, sul diritto della volontà. Perché la volontà deve contare meno del sangue? Perché se due o tre amiche anziane rimaste sole o vedove, coi figli già andati a vivere altrove, vogliono andare a vivere insieme, condividere le spese, la casa, avere la reversibilità pensionistica, decidere l’una per l’altra se una non può più decidere. Perché non possono farlo dentro una scatola legale, un patto sociale?” conclude Murgia
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Si litiga e si fa pace come in tutte le famiglie
Anche nelle famiglie queer ovviamente ci sono da affrontare questioni economiche e Murgia spiega che “ciascuno paga per sé. Ma se ci sono guai, tutti pagano per tutti. E non conta la fedeltà ma l’affidabilità”. E come in tutte le famiglie si litiga “in modi e con intensità diverse. Nelle relazioni si litiga sempre per restare. Quando tu te ne vuoi andare non litighi. Non spieghi, non perdi tempo. Te ne vai. Litigare è un segno di salute. La persona con cui discuto di più è Chiara Valerio. Perché è una che fugge dal conflitto ma mi mette in discussione, mi fa resistenza e non mi subisce mai”. E naturalmente se non si fugge si fa la pace. Ma come? “Piangendo. Se riesco a portarla a piangere, ho vinto io. Però non vuol dire che l’ho convinta. Vuol dire che alla fine lei mi dimostra che a volte non è importante avere ragione. È più importante restare insieme. Questo è tipico della famiglia. Difficilmente due fratelli vanno d’accordo. È il sangue a tenerli insieme. Noi invece siamo riusciti a creare questo legame senza passare per il sangue”