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Eurostat: i giovani italiani via da casa poco prima dei 30 anni. Non accadeva dal 2013

Economia
©Getty

Nel 2021 l'età media dei giovani italiani tra i 18 e i 34 anni che vanno a vivere da soli è scesa dai poco più di 30 anni a 29,9 anni, secondo l'ultima rilevazione dell'istituto

 

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Piccolo passo avanti per i giovani italiani che hanno abbassato, anche se di poco, l’età media in cui “abbandonare il nido”. Un risultato ancora lontanissimo dalla Svezia o dalla Finlandia, Paesi dove si va via da casa tra i 19 e i 21 anni. I giovani italiani restano oltre tre anni sopra la media Ue (che rimane bloccata a 26,5 anni, senza ancora riuscire a tornare ai livelli pre-Covid che si aggiravano a 26,2 anni), ma scendono sotto la "soglia psicologica" dei 30 anni. Un traguardo che dal 2014 era diventato irraggiungibile. Fanalini di coda, quindi dopo l’Italia, i ragazzi di Grecia, Bulgaria, Slovacchia, Portogallo e Croazia. E' innegabile che l'arrivo del Covid ha peggiorato una situazione stagnante in cui i giovani italiani risultano più precari, più poveri e  con minori opportunità rispetto alle altre fasce di età. Dai Rapporti Istat emerge che le cosiddette politiche giovanili non hanno prodotto risultati significativi. “Mandiamo i bamboccioni fuori casa''' disse, nell'ottobre del 2007 l'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa tirandosi dietro un mare di critiche; mentre Elsa Fornero, da ministra del Lavoro accusò i giovani italiani di essere "choosy", cioè di non accontentarsi del posto di lavoro che erano ragionevolmente in grado di ottenere. Che gli italiani siano "mammoni" o meno, quel che è certo è che i giovani non sono i soli responsabili di questa difficoltà a staccare il cordone ombelicale.

Le conseguenze del Covid

Eppure nel 1983 la quota dei 18-34enni celibi o nubili che viveva in famiglia era del 49%, nel 2000 era arrivata al 60,2%, attestandosi al 58,6% del 2009. Dall'ultimo Rapporto Istat, però, emerge che i giovani che vivono in casa con i genitori sono ora 7 milioni, pari al 67,6% del totale. In 50 anni siamo passati dalla metà ai due terzi. La pandemia, poi, ha avuto conseguenze sulla fasce deboli: a perdere il lavoro a causa delle chiusure e della crisi sono stati soprattutto giovani, donne e stranieri, i più precari e dunque i più licenziabili. Poi ci sono gli oltre due milioni di Neet, giovani che non lavorano e non studiano, un record tutto italiano, ai quali nei due anni nella pandemia si sono aggiunti studenti esclusi dalla didattica a distanza. La mancanza di lavoro e il lavoro poco retribuito rendono i giovani più poveri delle altre fasce di età: la povertà assoluta è passata dalla percentuale del 3 a quella dell'11% dei 18-34enni, e dal 4 al 14% per i minorenni. Dati che spiegano il fenomeno del presunto "bamboccionismo". La stessa Eurostat fa una correlazione tra tasso di occupazione giovanile, scoprendo, ovviamente, che nella maggior parte dei Paesi in cui i giovani vanno via da casa intorno o dopo i 29 anni il tasso di partecipazione al mercato del lavoro non supera il 50%. Mentre la Svezia, dove si va via di casa a 19 anni, sfiora il tasso del 70% di occupazione giovanile, e sono oltre il 60% anche Finlandia e Danimarca, Paesi in cui i giovani vanno a vivere da soli poco più che ventunenni.

 

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