La società della violenza crescente e il rifugio nel pettegolezzo

Come quelle rose del deserto che appaiono rinsecchite o morte, ma quando vengono irrorate diventano rigogliose, la violenza sta conoscendo una fase di grande splendore. Infrazioni sempre più crudeli - figlie di un basamento sociale favorente -, talvolta di efferatezza inimmaginabile mista a manifestazioni di indifferenza che lasciano sgomenti. Questo aspetto, l’apatia, l’attenuazione delle emozioni, meriterebbe uno spazio a parte, tuttavia rimane conseguenza delle cose che seguono, non causa. Noi, disarmati, opponiamo una lenta quanto insidiosa risposta di assuefazione, seguita da chiacchiericci, magari pilotati da pareri “esperti”, che si risolvono in una sorta di pettegolezzo collettivo che ci allontana dalle radici di questo male, dalla capacità di immaginarne un esito che non sia la rassegnazione. Tutto questo, condito da un terribile autoinganno, meccanismo di difesa utilizzato sempre più frequentemente da noi adulti, travolti da un senso di fallimento e di impotenza che ci toglie il respiro, spingendoci ad attribuire a una sola categoria anagrafica, i ragazzi, lo stato delle cose. Ma la violenza che sta impregnando di sé le loro vite insieme al nostro spazio e al nostro tempo, è ecumenica, trasversale, anzi sono proprio gli adulti a rimanerne insuperati interpreti, sono loro ad avere innescato e alimentato, ad esempio, i 56 conflitti sanguinosissimi aperti attualmente nel Pianeta, tonnare in cui giusto i ragazzi sono le vittime sacrificali. Un olocausto sistematico, sistemato con discrezione negli scaffali delle abitudini. L’allarme scatta solo quando i protagonisti di atti di violenza vicina sono i giovani, gli adolescenti, sempre più piccoli, quasi bambini, come è accaduto negli ultimi episodi, che mi pare persino superfluo elencare perché i giornali se ne sono occupati abbastanza, eppure non si parla di ciò che è stato seminato negli ultimi decenni dagli adulti, che oggi si mostra in tutta la sua drammatica evidenza nella vita di creature che pare abbiano preso sul serio i modelli proposti. Non dico i genitori, parlo di tutti gli adulti. Purtroppo, è questo il punto, la verità che vanamente cerchiamo eludere, il disagio non è solo dei giovani, eppure così appare perché la storia la scrivono gli adulti e raccontano quello che gli pare, attraverso un incessante chiacchiericcio ai danni di chi non possiede strumenti per dare la propria versione, ossia i bambini e i ragazzi, e subisce una narrazione di comodo. Stamattina una ragazza, preoccupata, mi chiedeva se dopo l’elezione di Trump “scoppierà la guerra”, era spaventata e non è affatto malata. Un rito collettivo, l’autoinganno di cui sopra, per nulla riparatore, che tende a ottenere una sedazione delle responsabilità e dei sensi di colpa tra i grandi, puntando il dito senza troppa fantasia contro i soliti bersagli, la famiglia e la scuola, decidendo di ignorare che sul banco degli imputati dovrebbe salire tutto il mondo adulto, in particolare chi ricopre responsabilità istituzionali, a qualsiasi colore appartenga, che non riesce neppure a immaginare una visione alternativa, una risposta che contenga qualche speranza non solo misure repressive che, al pari della bella calligrafia, sono l’arte degli asini. Oramai ogni tentativo di risposta si risolve nel continuo accanirsi sugli stessi bersagli, la scuola e la famiglia, cercando di confinare in modo arbitrario le fonti del malessere dei bambini e dei ragazzi all’interno di territori predefiniti, come purtroppo accade anche a diversi professionisti a pagamento che, attraverso una litania sempre uguale a sé stessa, aumentano a ogni passaggio il carico sulla famiglia e sulla scuola. Ma il problema ignora i riti e non si schioda. L’operazione di confinamento e di salvataggio degli adulti è stata già tentata, e su larga scala, con il bullismo. Il problema è rimasto irrisolto anzi è cresciuto a dismisura. Quattro anni fa avevo iniziato un volume sul tema con queste parole. Possono valere anche per l’argomento di questo articolo. “Il teatro della violenza, persino superfluo dirlo, non è la scuola ma il mondo intero. La scuola è un sottoinsieme della società, un bambino che gioca in una pozzanghera piena di fango, sporcandosi, ma non è lui a produrre quella melma che lo colora. Solo più tardi diventerà un contributore, come gli altri. Alla scuola si rimprovera di non essere in grado di fermare la violenza al suo interno, rimprovero pertinente, peccato che arrivi da individui e gruppi umani che quella violenza coltivano con grande lena e non sembrano più bravi della scuola nel contenere certi fenomeni degenerativi che attraversano la loro attuale esistenza”. Forse sarebbe il caso di cominciare ad ammettere che mentre gli altri si spartivano il mondo noi c’eravamo e siamo corresponsabili. La scorsa settimana, mentre mi trovavo in visita per lavoro in una scuola di Torino, mi chiedevo se chi giudica la scuola è mai entrato nei suoi spazi, dico quelli quotidiani non certo quelli delle conferenze pagate come pepite d’oro. Forse dovremmo parlare più spesso coi dirigenti e i segretari scolastici, leggere le loro vite sfigurate dai politici e dai burocrati, che li sommergono di carte nevrotizzandoli e sottraendoli al loro vero lavoro. Mi chiedo se questi pubblici ministeri della famiglia e della scuola si sono mai rapportati a un bambino psicotico a mani nude tra i banchi di scuola, sovente senza copertura specialistica. Il malessere è reale, non ci servono più presunti soccorritori che quando arrivano sul luogo dell’incidente, invece di salvare i feriti cominciano a insultarli perché sono sporchi di sangue, pieni di fratture e magari puzzano un poco. La famiglia e la scuola sono stati investiti frontalmente da due autotreni, da una parte la virtualizzazione della realtà, che ha consegnato ai minori pascoli sconfinati dove non permettono a nessuno di seguirli, senza contare che coloro i quali dovrebbero seguirli, ecco il secondo autotreno, è stato annichilito dalla spaventosa accelerazione di tutti i processi legati alla loro esistenza, a cominciare dal lavoro, che spesso li restituisce stressati, quando non prosciugati, ai propri figli. Salvare è meglio che processare, ma occorrono idee e preparazione. Scomodo, meglio il pettegolezzo. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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