L'Università italiana è troppo teorica?

È una voce che rimbalza tra le mura delle aule dopo ore di lezione frontale, si rincorre in corridoio e finisce di tanto in tanto sui gruppi Facebook degli studenti che ancora li usano. “L’Università italiana non funziona, perché è troppo teorica”. Ma cosa c’è di vero dietro allo sfogo delle matricole italiane? Alcuni numeri. Alla fine del 2023, solo il 30,6% della fascia compresa fra i 25 e i 34 anni in Italia aveva conseguito il diploma di laurea . Il terzo peggior risultato in Europa, dopo Ungheria e Romania . Seguendo l’andamento negli anni, le cose parrebbero in miglioramento ma l’obiettivo del 45% di under 35 laureati entro il 2030 resta lontano. Non solo. Dall’Università italiana si scappa: se nel 2011-12 il tasso di abbandono al primo anno era fermo al 6,3%, dieci anni dopo è aumentato di un punto percentuale . E, complice anche l’inverno demografico, nei prossimi 20 anni gli atenei potrebbero perdere oltre 400mila studenti. Che l’Università italiana, dunque, respinga – per ragioni di varia natura – ancora troppi dei propri iscritti è forse vero. Eppure, naturalmente, questo non ha strettamente a che fare con la didattica universitaria, il cui insuccesso viene spesso misurato sulla base delle opportunità lavorative che garantisce agli studenti. Ancora numeri. In Europa, l’Italia è il Paese dove i laureati fra i 20 e i 34 anni più faticano a trovare lavoro entro tre anni dal diploma . Si tratta del 67,5% contro una media Ue dell’83,3%. Con picchi in Germania e nei Paesi Bassi dove meno di un laureato su dieci resta inoccupato. Le cose vanno meglio a chi decide di svolgere parte del proprio curriculum all’estero: Almalaurea ha misurato in un +14% il miglioramento delle chance occupazionali per gli studenti Erasmus. In breve: gli atenei italiani non sono i più attrezzati per l’inserimento nel mondo del lavoro. Si obietterà, però, che nel novero delle mansioni dei docenti non rientra la garanzia di un futuro finanziario ai propri studenti. L’Università, in realtà, ha istituzionalmente lo scopo di “promuovere la ricerca, il progresso delle scienze e l’istruzione di livello superiore”. Per capire, perciò, il ruolo di un’impostazione eccessivamente frontale della didattica negli insuccessi degli atenei italiani, abbiamo parlato con Pier Cesare Rivoltella, pedagogista e ordinario a Bologna di Didattica e Tecnologie dell’educazione. Nonché presidente della Società italiana di ricerca sull’educazione mediale. Professore, la domanda è malposta ma forse necessaria, l’Università italiana è troppo teorica? La didattica universitaria non può non essere teorica. Bisogna correggere il discorso, perché teoria e prassi vivono un rapporto di circolarità: non si può fare l’una senza l’altra. Diffido da questa polarizzazione. L’abbandono universitario, però, è diffuso. Cosa risponde agli studenti insoddisfatti? Quando parlano di troppa teoria, forse, gli studenti stanno dicendo che c’è poca attività. Che i concetti sono comunicati in modalità astratta e decontestualizzata. È importante che la cosiddetta teoria venga ancorata nei contesti e nelle situazioni reali. Il maggior numero di abbandoni è al primo anno. Le matricole sono poco preparate a questo scoglio? Il passaggio dalla scuola secondaria all’Università è un doppio salto mortale con avvitamento. Vedo un forte problema di discontinuità di pratiche rispetto alle superiori, a livello di lavoro e stili di apprendimento. C’è un fossato e non si fa abbastanza per riempirlo. È una delle cause più significative per gli abbandoni. All’Università, però, non è più didattica per adolescenti. È normale le lezioni siano più frontali? Sicuramente cambia molto dalla secondaria. Più diventiamo adulti e più consolidiamo degli schemi di soluzione ai problemi che facciamo enorme fatica a modificare. Fatichiamo a mettere in discussione le cornici di precomprensione dei fenomeni, abbiamo degli occhiali sul naso che ci fanno vedere le cose soltanto in un certo modo. Ma per agire su questo, la didattica trasmissiva non è sufficiente: serve pensare una didattica basata sui problemi, sui progetti, sulla ricerca. Tutte modalità attive di apprendimento che comportano da parte del docente una progettazione. E lei vede questo sforzo negli atenei italiani? Ci sono esperienze interessanti, ma a macchia di leopardo. La maggior parte della didattica è ancora tradizionalmente trasmissiva. Forse qualcosa cambia al livello dei master. E perché, secondo lei? Mancano fondi, idee o attenzione della politica? Semplicemente fino a oggi le esperienze didattiche non sono mai entrate nella valutazione di un docente. Quando si valuta la sua idoneità a ricoprire una posizione in ateneo, la sua didattica non interessa. L’unico aspetto di cui ci si cura è la qualità della ricerca. Quindi, gli articoli scientifici che ha prodotto, i saggi che ha scritto e le ricerche di cui è stato coordinatore. E questo già dice molto, perché far diventare la didattica di qualità un modo per qualificare i professori sarebbe un primo passo. Questo ancora non c’è. Lavorare con progetti e laboratori fin dall’Università favorirebbe anche l’inserimento nel mondo del lavoro? Io non sono d’accordo con chi dice che l’Università debba preparare al lavoro. Secondo me, deve formare alla cittadinanza, fornire competenze, far sviluppare capacità di pensiero critico. Poi, una volta che lo studente sarà così formato, saranno i soggetti del mercato a fornire la abilità più concrete per il lavoro. Sviluppare teste ben fatte, con competenze di creatività, pensiero divergente e problem solving non significa addestrare al mondo del lavoro.