Vendemmia amara: come si è infiltrato il caporalato nel nord Italia

Inyat Asad, Ullah Zahid, Muhammad Kamran e Ayoub Qasiem a marzo legavano tralci sullo stesso filare di una vigna in provincia di Pordendone, quando un trattore ha iniziato a distribuire fitofarmaci. Immediatamente i quattro si sono fermati e hanno iniziato a filmare il mezzo che, stando alle loro dichiarazioni, era guidato dallo stesso agricoltore. In breve, hanno riportato ustioni su varie parti del corpo e intossicazioni che li hanno costretti a dolori di stomaco e nausea. Hanno atteso mesi prima di diffondere il video e tuttora non hanno denunciato il fatto, ma il loro racconto è stato raccolto dai sindacati. “I danni testimoniati sono compatibili con un’esposizione acuta a fitofarmaci” , commenta Roberto Canaparo, professore di Tossicologia ambientale dell’Università di Torino. È successo in provincia di Pordenone ma, per gli stessi lavoratori, è tuttora complicato risalire con precisione all’azienda datrice di lavoro e, di conseguenza, agire per vie legali. Tanto basterebbe per capire le condizioni d’impiego: i quattro pachistani sono giunti lungo la rotta balcanica in un camp a Trieste dove, tramite passaparola, un caporale li ha reclutati per il lavoro grigio nella vigna. Tra i filari, hanno cominciato a operare in condizioni insicure fino, e oltre, l’infortunio. Oggi, da richiedenti asilo, faticano a dialogare con la commissione giudicante perché negli uffici “quelle buste paga non le guardano nemmeno”. I sindacati assicurano che la loro non è una condizione eccezionale ma la Coldiretti di Pordenone, tramite il presidente Matteo Zolin, smentisce: “Questo non è assolutamente il modo di lavorare delle nostre aziende”. Di certo, al momento, c’è solo che il caporalato non è una piaga che affligge unicamente il Mezzogiorno. "Avvelenati" prima dei pesticidi Per legge, si consiglia di attendere 48 ore prima di accedere senza dispositivi di protezione individuale ai campi trattati con fitofarmaci. Così non è stato: “Ci legavamo delle magliette attorno al volto – confessa Ullah Zahid – e coprivamo naso e bocca con un fazzoletto”. Ma per i quattro lavoratori pachistani, i problemi sono iniziati ben prima di “sentir bruciare la pelle”. “Sono venuti qua per una vita migliore e accettano di lavorare anche in determinate condizioni o perché non hanno alternativa o perché pensano che sia normale – spiega Dina Sovran, responsabile Flai Cgil di Pordenone – I primi che sono venuti da noi si sono sorpresi quando abbiamo detto loro che 5 euro orari sono pochi”. Ullah Zahid racconta di essere giunto in Italia a dicembre 2021, lasciando cinque figli in Pakistan, e di essere rimasto nei camp triestini fino alla “chiamata” dal caporale. È stato lui, poi, a convocare nelle vigne gli altri, che hanno tutti storie simili: hanno lasciato i figli in Pakistan, sono giunti in Italia tramite la rotta balcanica e hanno immediatamente cominciato a lavorare nel settore agricolo, reclutati dalle ronde quotidiane dei caporali. Fa eccezione Muhammad Kamran che nel 2018 ha esordito nella ristorazione e nel volantinaggio, salvo poi ripiegare su un impiego da bracciante a causa del Covid: “Nell’agricoltura – assicura – le condizioni sono molto peggiori rispetto alla ristorazione”. Lo sono prima di tutto per la paga. Inyat Asad ce lo mostra con le carte: in una mano tiene le buste paga di tre diversi mesi e nell’altra un taccuino con i suoi appunti. Le prime documentano 326 euro di stipendio a fronte di 45 ore mensili, i secondi testimoniano il numero di ore lavorate e appuntate dal migrante quotidianamente: 9, 11, 10, 11.30, e così via. Il disavanzo viene pagato in contante: è il modus operandi del lavoro grigio che ostacola il percorso verso la regolarizzazione dei migranti. Ma non finisce qui: “In aggiunta, i caporali chiedono 50 euro per emettere una busta paga – spiega Dina Sovran – 250 euro per un nuovo contratto e dai 1.000 ai 2.000 euro per la residenza”. I fatti di Pordenone L’avvelenamento da pesticidi, con queste premesse, sarebbe la beffa che va oltre al danno. Quando Zahid mostra le cicatrici delle sue ustioni, ormai pressoché invisibili, la sua voce si rompe: “Ho sentito bruciare molto sul momento”. Il peggio, invece, per Inyat Asad sarebbe arrivato qualche settimana dopo, quando il caporale gli avrebbe imposto di tornare a lavoro nonostante i malesseri di stomaco che lo hanno costretto a due mesi di nausea e visite mediche. “Quella che descrivono – secondo il professor Canaparo – è una tossicità acuta per esposizione ad alte dosi di fitofarmaco. Per il tipo di coltivazione e per il periodo dell’anno, potrebbe essere stato un antifungino per la peronospora che ha una tossicità molto inferiore rispetto a un insetticida”. In altre parole, i danni denunciati sono compatibili all’avvelenamento da pesticidi ma, per subirli, è necessaria un’alta esposizione. Cui si è sottoposto, non in modo necessariamente consapevole, lo stesso agricoltore. “Il contadino doveva fornire a loro i dispositivi di protezione ma, in primis, era lui a rischiare. Spesso, nel mondo agricolo, manca formazione sui pericoli dei fitofarmaci e gli errori possono nascere anche da questo”. L'impegno degli agricoltori “Non sarebbe niente di giustificabile” premette il presidente della Coldiretti locale Matteo Zolin, che esprime solidarietà verso tutti i braccianti sfruttati. Ma a prescindere dalla denuncia, ancora non presentata, il rappresentante di categoria ricorda anche che le associazioni lavorano “per dare dignità al lavoro in agricoltura con contratti certi e regolari” e che “tutti i soci Coldiretti hanno seguito corsi di formazione e hanno ottenuto patentini sull’uso di prodotti fitosanitari”. Non solo: “Per il periodo della vendemmia, ormai, lo sfruttamento è un falso mito perché le operazioni sono quasi del tutto automatizzate”. In altre parole, “fare di tutta l’erba un fascio” sarebbe un rischio troppo grande, a fronte dell’impegno delle imprese, per un settore che è il fiore all’occhiello della provincia: “Basti pensare al prosecco e al Pinot grigio”. Su una questione, però, la distanza con i sindacati pare inconciliabile: quello di Pordenone è stato davvero un caso isolato? Per rispondere, i numeri sul caporalato – pochi e talvolta confusi – non bastano. Ma potrebbero almeno sciogliere qualche dubbio. Cosa ci dicono i numeri sul caporalato Due premesse. La prima è che non esistono dati estratti per il solo settore vitivinicolo, che è studiato assieme all’intero comparto agricolo. La seconda è che, su oltre un milione di aziende agricole , nel 2022 le ispezioni irregolari dell’Ispettorato nazionale del lavoro sono state poco più di 40.000 e neppure 100 i procedimenti penali per sfruttamento individuati. Ciononostante, l’Osservatorio Placido Rizzotto stima circa 240.000 braccianti sfruttati in campo agricolo, di cui 55.000 donne esposte anche al rischio di abusi sessuali. “A Ragusa, ad esempio, si è raggiunto il più alto tasso di interruzioni di gravidanza per queste ragioni”, spiega Silvia Guaraldi, segretaria nazionale Flai Cgil. Che aggiunge: “Le ispezioni dopo la morte di Satnam Singh hanno segnalato un’irregolarità al 66%, di cui il 50% sono stranieri e il 50% italiani”. Numeri che riguardano tanto il Mezzogiorno quanto il nord Italia. Per chi ha la cittadinanza, i problemi sono gli stessi da decenni. Ma, per la popolazione migrante, qualcosa potrebbe cambiare a breve con l’abolizione del Click day nazionale, ipotizzata dal governo, e con la riforma del sistema del decreto flussi tra le cui falle operano criminalità organizzata e caporali.

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