Essere medici oggi: storie di quotidiana violenza, i racconti delle vittime

Ogni giorno la cronaca racconta nuove aggressioni a medici e infermieri. Nel 2023 i dati dell’Osservatorio nazionale sulla sicurezza delle professioni sanitarie, istituito a fine 2022, contano 16 mila episodi di aggressione, e 18 mila operatori coinvolti. Questi numeri sono solo la punta dell’iceberg. E nell’ultimo anno le cifre sono in aumento. Il primo luogo dove si consumano le aggressioni è il pronto soccorso, al secondo posto gli interventi degli operatori del 118, al terzo i reparti di psichiatria e poi gli studi dei medici di famiglia e le guardie mediche. Due terzi delle persone aggredite sono donne. I principali aggressori sono i pazienti stessi, ma spesso sono anche i parenti. Abbiamo raccolto le testimonianze di chi ha subito aggressioni in questi luoghi. Storie di medici e infermieri vittime di violenza verbale e fisica da nord a sud del nostro paese. Il Direttore del pronto soccorso del Policlinico di Milano: i PS l'ultimo baluardo per i pazienti Giorgio Costantino dirige il pronto soccorso del Policlinico di Milano dal 2018. Le aggressioni verbali sono all’ordine del giorno, ci racconta. Ma non mancano le violenze fisiche ai danni degli operatori sanitari. “Ci sono due tipi di aggressioni. Quelle dei pazienti che fanno abuso di sostanze e dei pazienti psichiatrici, che sono fuori controllo. Ma ci sono soprattutto quelle dei pazienti, e dei parenti, che si aspettano di essere presi in carico qui e subito. MI spiego meglio. Arriva un paziente giovane che è caduto a terra a casa e ha una lieve contusione, ma non ha fattori di rischio. È venuto perché si è spaventato e pensa che sarà visitato in tempi brevi, ha una esigenza di essere accolto in tempi brevi. Questo però si scontra con alcuni fattori: non è in gravi condizioni e non può peggiorare, mentre ci sono molti altri casi più gravi che necessitano di un intervento più tempestivo. Cosa accade a questo punto? Il paziente è frustrato perché non sono state soddisfatte le sue aspettative. Mentre aspetta, monta la rabbia perché sente che il suo diritto è stato negato, è spaventato e teme di avere una patologia che se non riconosciuta possa peggiorare. A questo punto inizia a avere richieste sempre più aggressive. E la situazione diventa complicata.” Secondo lei cose si può fare di concreto e immediato? Ci sono due aspetti su cui lavorare. Uno è la de-escalation e la preparazione del personale sanitario nel fornire informazioni complete, capire le esigenze dell’utenza e tentare di arginare con la gentilezza la violenza. Ma quando è presente la violenza le contro misure dovrebbero essere immediate e definitive. Intanto bisognerebbe rendere le denunce automatiche e definitive, e non dovremmo essere noi a denunciare, ma la struttura dove lavoriamo. C’è bisogno di avere presidi delle forze dell’ordine permanenti. In Lombardia ci sono nella maggior parte delle strutture mezzi automatici per allertare e chiedere aiuto. I pronto soccorso sono in cima alla lista dei luoghi dove avviene il maggior numero di aggressioni. Perché? In un sistema sanitario in crisi, i pronto soccorso restano l’ultimo baluardo a cui la gente può rivolgersi per avere aiuto. Le richieste, quindi, aumentano ma diminuiscono le possibilità di dare risposta alle richieste. Diminuiscono i posti letto e aumenta il cosiddetto boarding, il tempo di attesa per il ricovero in reparto. Aumentano gli accessi dei codici minori che non trovano risposta dalla medicina del territorio o che vogliono che vengano eseguite analisi strumentali il prima possibile. È un cane che si morde la coda. Il medico del Carderelli di Napoli, denunciato dal suo aggressore Umberto Valentino è il vicedirettore della terza medicina del Cardarelli, dove lavora dal 1998. Nel 2009 era stato aggredito dal figlio di un paziente diabetico ricoverato in pronto soccorso con una febbre che i parenti attribuivano a una infezione. Ma nel corso del triage si accorsero che era in corso un infarto acuto del miocardio. Il paziente fu salvato, ma dopo alcune ore uno dei figli all’improvviso, nonostante la presenza delle forze dell’ordine nel pronto soccorso, lo colpì alla nuca con alcuni calci. Umberto Valentini subì un grave danno al midollo e alle spalle e da allora la sua vita personale e lavorativa è cambiata. “Non ho perso l’uso delle gambe, e già questo ritengo che sia stato un dono prezioso, e sono potuto rientrare al lavoro dopo un anno. Non sono potuto rientrare in pronto soccorso ma in un reparto di medicina interna, ma non ho rimpianti.” Nel dicembre di un anno fa Umberto Valentino è stato nuovamente aggredito. Questa volta era nel suo reparto di medicina interna, nella stanza dei medici dove stava preparando referti e dimissioni. “Una paziente in gravi condizioni è arrivato dalla medicina di urgenza. Avevo appena finito di visitarlo e stavo scrivendo la sua cartella. Era stabile. I familiari sono riusciti a entrare in reparto, uno di loro era molto agitato e ho cercato calmarlo e di spiegargli che erano in buone mani. Lui continuava a minacciarci di morte, ha danneggiato i computer, e mi ha lanciato il telefono in faccia perché voleva che parlassi con il direttore sanitario per fare spostare il paziente in un altro reparto. Nel nostro c’era un caso covid, come spesso accade, ma per la famiglia era una minaccia. Nonostante i tentativi di de-escalation che ho messo in atto, ha aggredito me e una specializzanda che era nella stanza e mi ha ferito con un pugno sull’orbita. Mi hanno dovuto mettere vari punti di sutura. L’aggressore, alla vista del sangue, è scappato ed è andato in un altro pronto soccorso per farsi refertare, denunciando a sua volta di essere stato aggredito, per cercare di alleggerire la sua posizione. Oggi invece, oltre alle accuse di lesioni gravi a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, si è aggiunta anche quella per la falsa testimonianza." Come si fa a continuare a lavorare, gli chiediamo. “Io sono innamorato del mio lavoro. È questo il motore che mi porta ogni giorno in reparto. So di correre ogni giorno un rischio perché ormai siamo nel mirino di chiunque, sia dei parenti che dei pazienti stessi, nonostante il nostro obiettivo è curarli e prenderci cura di loro.” La storia di Alberto Batini, medico di famiglia minacciato per un certificato Alberto Batini si è laureato in medicina durante la pandemia. Oggi sta completando il corso di formazione in medicina generale. Secondo le nuove normative ha potuto aprire il suo studio a Segrate, alle porte di Milano, già durante il primo anno di specializzazione. Adesso segue 1300 pazienti. A dicembre 2021 un paziente è entrato nel suo studio chiedendo un certificato da presentare all’assicurazione per ottenere un rimborso. “Gli ho chiesto ulteriori esami per potere valutare il caso. Ho dovuto chiedere alcune radiografie per potere essere preciso nella diagnosi. A quel punto l’uomo di 30 anni circa si è innervosito e pretendeva il certificato subito e gratuitamente. Premetto che questo tipo di certificato non è rilasciato in convenzione. Mi ha minacciato di farmi del male e mi ha intimato di non chiamare le forze dell’ordine. Io ero spaventato perché ero da solo in studio, era mattina. Ho rilasciato il certificato ma nel frattempo ho allertato la mia fidanzata che ha chiamato i carabinieri. Quando sono arrivati, lui era già andato via. Ho sporto denuncia in caserma e da allora è in corso il processo. Questa storia mi ha cambiato la vita, avevo iniziato a lavorare sereno e felice della mia scelta. Ho dovuto cambiare dopo un anno la sede dello studio pur avendo già tanti assistiti. Ho dovuto assumere un servizio di vigilanza privata a mie spese e a installare sistemi di video sorveglianza e allarme. Ora, devo dire, che non lavoro più con quella serenità dei primi tempi. Sono però convinto che dovremmo tutti denunciare. È un momento complicato per il sistema sanitario, veniamo da anni di liste di attesa insormontabili e per qualsiasi specializzazione. Noi medici di famiglia siamo i soli con un accesso immediato, insieme ai medici e agli infermieri di pronto soccorso, e infatti dopo di loro e dopo gli operatori del 118 e chi lavora in psichiatria, siamo quelli che registriamo il maggior numero di aggressioni e minacce. Purtroppo, le aggressioni e le minacce raccontate, sono solo la punta dell’iceberg. C’è un sommerso enorme, a giorni alterni ricevo telefonate di colleghi che mi raccontano il loro terrore. Dovremmo iniziare tutti a segnalare ogni singolo episodio per cautelare la nostra categoria.” La specializzanda in pronto soccorso presa a schiaffi da una paziente che vuole saltare la fila Abbiamo incontrato Cecilia Rispoli, specializzanda nel ponto soccorso più grande di Napoli, il 27 agosto scorso, in quella occasione Cecilia ci aveva raccontato che ogni giorno subiva minacce da pazienti in attesa o dai parenti. Ma il 30 agosto una signora di circa 30 anni, arrivata in pronto soccorso già la sera prima, è arrivata direttamente in area medica pretendendo che le fossero fatti alcuni esami che non avevamo ritenuto necessari il giorno prima. “La paziente era arrivata in codice verde per un dolore addominale. Era stata dimessa da un collega con una terapia. Ma il venerdì pomeriggio è entrata in medicheria urlando e aggredendo verbalmente tutti, pretendendo di saltare la fila. Mi ha minacciata e quando la ho invitata a andare fuori per aspettare di essere registrata e chiamata, mi ha presa a schiaffi. È assurdo ma io me lo aspettavo. Sono al pronto soccorso da febbraio e non c’è mai un giorno tranquillo. C’è una aggressività crescente. Ma quando ho scelto questa specializzazione sapevo a cosa sarei andata incontro. Io credo che non ci sia più un rapporto di fiducia, è come se noi fossimo il nemico.” Cambierai il tuo percorso? Non credo, o almeno non per questa ragione. Quello che mi spaventa è lo stress non la mia incolumità. È un lavoro molto pesante con orari complicati. A questo si aggiunge una utenza enorme. La maggior parte degli accessi non dovrebbe rivolgersi a noi ma alla medicina territoriale. Questo rallenta il lavoro, esaspera chi è in attesa e ci costringe a dovere gestire il tutto sotto stress. Io non ho paura, ma credo che questo sia dovuto ad una incoscienza dovuta all’età. Matteo Letzgus, il dirigente sanitario a cui è stato rotto un femore con un calcio dal parente di una paziente La storia di Matteo Letzgus è quella di una aggressione brutale, di un femore spezzato in tre punti con un calcio e di una certezza: i medici non sono più al sicuro. Matteo Letzgus dal 2020 lavora nella direzione sanitaria del Policlinico di Milano e si occupa di tutti quegli aspetti organizzativi e gestionali che regolano il funzionamento dell’ospedale. Non è un lavoro a stretto contatto con i pazienti ma il dottor Letzgus aveva gestito, con altri colleghi, la campagna vaccinale anti-Covid nei centri di Milano. “In quelle occasioni dovevano parlare con quei pazienti che avevano dubbi e domande sui vaccini, che magari erano in difficoltà o erano spaventati. Il livello di aggressività era molto alto. C’è chi voleva accedere quanto prima al vaccino, pur non avendone ancora diritto, e chi invece, con il passare del tempo, voleva essere esentato o richiedeva un particolare tipo di profilassi. Sono stati mesi complicati per tutti noi. Ma mai avrei pensato di essere vittima di una aggressione così brutale in un contesto molto diverso.” Cosa è accaduto? Era il 19 dicembre del 2023, mi trovavo in direzione sanitaria quando sono stato contattato dai colleghi di medicina, che erano in difficoltà nel gestire la famiglia di una signora ricoverata. Volevano portare via la paziente nonostante il parere contrario dei medici, visto che le condizioni della donna non lo consentivano. Sono arrivato e ho provato a spiegare le nostre ragioni alla famiglia, ma non mi hanno lasciato parlare, e sono stato prima aggredito verbalmente dalla nuora, poi il marito mi ha preso a schiaffi e con un calcio mi ha rotto il femore. Le forze dell’ordine, già allertate, sono arrivate poco dopo. Eravamo nel corridoio di un reparto di medicina, c’è voluto più tempo per raggiungerci. Sono stato in malattia per 4 mesi, oltre al danno fisico è stato difficile il recupero. I colleghi mi hanno supportato molto, ma non è semplice dimenticare l’accaduto e il senso di impotenza. Non voglio parlare solo di quello che è accaduto a me, vorrei che si sollevasse l’attenzione su una situazione che sta peggiorando di mese in mese. Nessuno più lavora tranquillo, che sia in pronto soccorso, o nei reparti dove non si è esposti a un quotidiano e continuo rapporto conflittuale con una utenza sempre più aggressiva e esasperata. Ormai manca quel rapporto di fiducia che da sempre caratterizzava la gestione di un paziente. È come se chi arriva qui, parte già dal presupposto che i medici stanno sbagliando. Non si cono certezze in medicina ma ormai questo viene visto come un dolo.