A Procida il mare ha ucciso decine di marinai. “Morti tanti amici ignari dell’amianto”

La memoria è quella ferrea di chi ha ripercorso i ricordi, dolceamari, centinaia di volte. “Era il 16 aprile 1964”, esordisce Antonio Costagliola, procidano, lavoratore marittimo in pensione. Era il 16 aprile 1964 – racconta – quando per la prima volta salì a bordo di una petroliera americana della Getty Oil Company. Prima di allora, sempre come allievo di macchina, aveva lavorato in piccole navi italiane già dai 16 anni. Perché a Procida non c’era alternativa: “A quel tempo, l’unico modo per campare la famiglia a Procida era il lavoro marittimo, l’unica chance di lavoro sull’isola”. E, in effetti, per i poco più di 10.000 abitanti di Procida le possibilità erano poche. E le conseguenze molte. Perché sulle navi che transitavano dal porto campano l’amianto era ovunque. Secondo il VII rapporto Renam del 2024, dal 1993 al 2018 a contrarre il tumore sentinella dell’asbesto sono stati 788 lavoratori nell’industria del trasporto e della movimentazione delle merci in mare. Si tratta di macchinisti, come Antonio Costagliola, motoristi navali, facchini e scaricatori di porto. Che per decenni, fino almeno al bando del 1992, hanno inalato amianto anche d’importazione. A Procida, la situazione è ancor più grave ma latitano i numeri. A produrne alcuni è Nicola Carabellese, avvocato presidente di Apin che, sulla base delle vittime legalmente assistite, ha stimato un tasso di mesoteliomi della pleura a Procida superiore di 150 volte rispetto alla media nazionale. Una mela cancerogena Stati Uniti, canale di Suez, canale di Panama, Brasile, Golfo Persico, Sudafrica, Dubai. Costagliola, di 4 mesi in 4 mesi, ha solcato i mari di tutto il mondo. “Eravamo in 49 a bordo della nave – ricorda – e non 50, perché a 50 ci sarebbe toccato il medico a bordo. Ma eravamo tranquilli perché non sapevamo nulla dell’amianto”. E, così, lo maneggiavano ogni giorno. “Usavamo persino i guanti in amianto perché avevano più resistenza al calore ma, consumandosi, si sfarinavano e l’amianto usciva nell’aria. E noi, ignoranti della materia, lo respiravamo, anche se a terra credo che sapessero già tutto dei rischi”. Il pericolo era dietro l’angolo: l’amianto si annidava in tutti i tubi, nelle caldaie coibentate e nei macchinari. Persino sugli alimenti. “Ci ho ripensato negli anni successivi, ma quella polvere era ovunque. Quando lasciavamo la frutta sulla scrivania, dopo averla lavata, la ritrovavamo polverosa. Essendo un ambiente chiuso, cosa poteva essere se non amianto?”. “Li ho visti cadere tutti” Nel 1987 Antonio Costagliola intraprende l’ultima avventura tornando a lavorare per navi battenti bandiera italiana. Nel 1992 il settimo governo Andreotti vara il bando alla commercializzazione e alla produzione di amianto, entrato in vigore nel 1993. Ma la norma non fa rumore e, a Procida, i marittimi non comprendono ancora il pericolo corso per una vita intera. “Io me ne sono reso conto nel 1999 – ricorda Costagliola – quando ero in pensione e alcuni avvocati verdi sono venuti a raccontarci dei rischi dell’amianto”. Poi, tragicamente puntuali, sono arrivate le morti dei molti colleghi e amici, di cui Costagliola ricorda volti e nomi malvolentieri: “Sono cose da non rammentare, altrimenti ci ammaliamo anche senza esserlo”. “Vari miei amici sono morti per mesotelioma ma molti sono caduti all’improvviso, senza sapere che la causa fosse l’amianto”. A lui, la vita da superstite impone ora il dolore e il dovere del ricordo. Ma anche il peso di una vita debilitata dalle placche pleuriche: “Noto sempre di più la mia sofferenza quando cammino e ogni anno faccio la tac sperando che non ci sia altro”. Cinque gradi di giudizio A fianco dei parenti delle vittime, Antonio Costagliola intraprende il calvario giudiziario per ottenere i rimborsi. E presenta una causa contro l’Inps per esposizione all’amianto: prima istanza, appello, cassazione, nuovo appello e cassazione. Che ha rigettato un nuovo ricorso e condannato Costagliola al pagamento delle spese processuali. Il suo non è un caso isolato perché, per i marittimi, dimostrare le responsabilità dell’avvelenamento è un’impresa complicata da molti cavilli. Soprattutto per quanto riguarda la malattia professionale che fa capo all’Inail. E per la quale i marittimi sono costretti a dimostrare il superamento delle 100 fibre/litro di amianto su tutte le navi in cui sono stati imbarcati, per un periodo minimo di dieci anni. Cambiando spesso nave d’imbarco, però, in pochi hanno certificato l’esposizione con successo. Oggi le cose sono migliorate grazie a una serie di sentenze che negli anni hanno permesso a vittime e parenti di ottenere il giusto contributo.

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