La scrittrice e docente Viola Ardone: "La scuola deve insegnare l'educazione sessuale"

La conosciamo attraverso le pagine dei suoi romanzi, i best seller Il treno dei bambini e Oliva Denaro, tradotti in tutto il mondo, e Grande meraviglia. I personaggi della vita reale di Viola Ardone, napoletana, classe 1974, sono invece i suoi alunni e le sue alunne, a cui ogni mattina fa lezione tra i banchi del liceo scientifico di Giugliano, scuola di provincia dove nel biennio ha le cattedre di italiano e latino. “Io e l’insegnamento ci siamo scelti a vicenda perché i miei genitori erano entrambi professori e appena dopo la laurea mi consigliarono di tentare il concorso a cattedre, che vinsi”, racconta la scrittrice a Sky TG24. “La mia storia con la scuola è stata abbastanza fortunata, non sono mai stata precaria: ho solo dovuto attendere il mio momento”. Dopo il liceo classico e la laurea in Lettere, Ardone lavora per alcuni anni nel mondo dell’editoria prima di diventare docente di ruolo. Un mondo, quello dei ragazzi, che le insegna ogni giorno “un punto di vista differente”. Mentre la scuola, sostiene, deve insegnare loro anche il fallimento. Ha mai pensato di scrivere un romanzo sulla scuola? Sì, ma la risposta è stata che non lo farei. Perché mi sembra già di conoscerla, invece a me piace scrivere di cose che non conosco. Raccontare per me è un modo per chiarire delle cose, scoprirle. Con la scuola è già successo. Cos’hanno in comune scrittura e insegnamento? Condividono l’abilità del dover scegliere molto bene le parole, trovare la forma corretta per riuscire a comunicare un contenuto in base al destinatario. Nel caso dell’insegnante è più difficile perché lo studente tende a disinteressarsi a quello che dici: quello della classe è un pubblico tosto. Nella scrittura invece è meno complicato perché chi compra i tuoi libri è piu motivato rispetto all’alunno che è in classe alle 8 del mattino mentre vorrebbe essere a ancora a letto. È un bel banco di prova. Cosa ha imparato dai suoi studenti? Un punto di vista diverso: quando ho determinate idee su come risolvere un problema o trovare una soluzione, loro me ne mostrano altre. La mia curiosità nei loro confronti è proprio questa: cercare di capire quali sono le strategie cognitive che i ragazzi mettono in campo a differenza degli adulti. E come queste cambino di generazione in generazione. Il tempo della pandemia ha messo a dura prova gli adolescenti. In che cosa li ha trovati più cambiati al ritorno in classe? Alla fine dell’emergenza era molto forte la loro difficoltà di fare di nuovo gruppo, tornare a una dimensione comunitaria che non passasse per le chat, il web, i social. Avevo l’impressione che ritenessero molto più reale tutto quello che era virtuale, perché in quel pezzo della loro crescita ha rappresentato l’unica realtà possibile. Finita l’emergenza, con colleghi e colleghe della scuola abbiamo investito molto sui lavori di gruppo, non solo in classe, ma anche cercando di radunarli nelle case di amici o familiari. Dovevano ritornare nelle vite degli altri. L’ansia è una costante delle vite dei ragazzi e le ragazze di oggi? Ha più a che fare con i risultati o con la paura del futuro? Sì, tra loro c’è una forte ansia da prestazione. E paradossalmente è più presente nei più bravi della classe, che sono più ansiosi degli altri. Avvertono su di sé l’aspettativa dei genitori, e in qualche modo subiscono anche un’aspettativa sociale: pensano che da loro ci si aspetti che salveranno il mondo. Poi c’è un altro tipo di ansia, generalizzata. Legata al periodo storico che stiamo vivendo? Sì. Per un lungo periodo i ragazzi sono stati bombardati da notizie sulla pandemia, poi sulle guerre. Vivono in un clima di paura mediatico che respirano attraverso i cellulari, i social. E che amplifica il loro senso di inquietudine. Si chiedono: “Da solo come faccio a fronteggiare queste emergenze? Cosa ci si aspetta che io faccia?”. Che rapporto hanno invece con i giudizi? Quella è un’altra fonte di ansia. Sono molto legati all’idea del punteggio, del riuscire ad accaparrarsi il liceo migliore, del numero più alto con cui superare il test all’università… Poi si trovano in un mondo in cui l’idea di lavoro che avevamo negli Anni ‘60 e ‘70 è completamente cambiata. È come se dovessero stare dentro paradigmi novecenteschi con condizioni però attuali molto diverse. E probabilmente sentono che questa imposizione della performance non corrisponde a nessun risultato misurabile nella realtà. È importante che i ragazzi imparino a esperire il fallimento? Assolutamente sì. Dobbiamo insegnare ai ragazzi a confrontarsi con l’errore, con il limite. Perché se non lo esplori, non avrai molte probabilità di superarlo. Questo non significa che bisogna sempre accontentarsi, ma conoscere le proprie possibilità. Questa prova è andata male? Se vuoi che vada meglio la prossima volta cerchiamo di capire cosa non ha funzionato. La scuola deve insegnare questo. Che opinione ha del modello di scuola senza voti? Non mi convince. Non perché io sia legata al numero o al giudizio, ma perché il voto è il simbolo di una valutazione che nella vita poi troveranno sia all’università che in qualche modo nel mondo del lavoro. E poi il voto è anche un autogiudizio. Se mi dicono: “Prof, lei mi ha messo 4 ma io meritavo 6”, io chiedo: “Ok, qual è la tua idea?”. E quel confronto può aiutare a crescere. D’altro canto, un bel voto è una soddisfazione. I ragazzi sono molto legati ai voti? Sì, molto. Li attendono in maniera spasmodica. C’è qualche docente che pubblica i voti sul registro online a qualsiasi ora del giorno e della notte prima di mostrare gli elaborati ai ragazzi. Su questo modus operandi non sono d’accordo perché alimenta quest’ansia compulsiva, e poi va a slegare il voto dalla prova. Usciamo per un attimo dalle materie che si studiano sui libri. A scuola si parla di temi di attualità come la violenza di genere? E tra di loro è oggetto di discussione? Secondo me esiste un doppio canale: in classe sì, se ne parla, ed è un bene. Si guardano film sul tema, si creano dibattuti, si fanno progetti… Ed è bello che sia così, però poi nel loro dialogo interpersonale la battutaccia resta, così come la parola detta male. In classe sono attenti, ma fuori non riescono più di tanto a interiorizzare quei concetti. Questo vale sia per i ragazzi che per le ragazze? Le ragazze sono molto consapevoli. Stiamo crescendo una generazione di studentesse che sottolineano, notano. I ragazzi forse invece non sono ancora pronti: c’è ancora uno iato tra la teoria – come i temi del rispetto e la non violenza – e alcuni comportamenti che evidentemente vedono in famiglia. Come il padre o il nonno che dicono al ragazzo: “Dai, non fare la femminuccia”. Ecco, i maschi non sono ancora in grado di stigmatizzare quella frase collegandola alla lezione che hanno ascoltato fatto in classe. Si discute spesso, anche in politica, di soluzioni concrete contro la piaga della violenza maschile sulle donne. L’educazione è una di queste? Certo, perché la scuola è per tutti, mentre le famiglie sono tutte diverse. A casa mia insegno a mio figlio che usare quella parola è scorretto anche se lo fa per scherzo, mentre in un’altra famiglia magari non esiste quella coscienza lessicale che aiuta un ragazzo a comprendere che quel modo di dire è violento. L’educazione affettiva secondo lei dovrebbe essere una materia obbligatoria? Sì, ma legandola anche a quella sessuale. Perché altrimenti l’educazione sessuale la lasciamo fare al porno, e si stacca completamente dall’affettività, invece bisogna legare le due cose. Dobbiamo parlare del sesso come una delle conseguenze possibili dell’affettività, quindi il rispetto del proprio corpo e del corpo dell’altro o dell’altra. Il porno è intrattenimento, ma di sicuro non spiega cos’è il sesso, né l’amore o il desiderio. In questo senso i film porno sono film distopici. Se avesse la possibilità di risolvere un problema della scuola di oggi, quale sceglierebbe? Ne sceglierei due, che sono collegati: il numero di alunni per classe e l’edilizia scolastica. Occorre creare delle strutture belle e funzionali, che non siano gelide d’inverno né troppo calde d’estate. Un posto in cui abbiano il piacere di trascorrere anche l’intera giornata comodi, non stretti in aule fatiscenti o pericolanti. Insomma, un posto in cui abbiano voglia di tornare.