La lunga strage dell’amianto, l’avvocato: “Si muore ancora, responsabilità pubbliche"

Era il 6 giugno 1986 quando l’impero Eternit chiuse i cancelli di via Oggero, a Casale Monferrato, lasciando 350 operai senza lavoro e seminando un’eredità letale: secondo la sentenza in Corte d’Assise di Novara del processo Eternit bis, sono state 392 le morti legate all’esposizione all’amianto nella zona. Una strage che ha costretto l’Italia ad aprire gli occhi sulla nocività del minerale. Perché a Casale Monferrato hanno sì perso la vita praticamente tutti i lavoratori dello stabilimento, ma con loro anche i familiari che li aspettavano a casa e gli abitanti della cittadina che mai hanno messo piede nella fabbrica. Il cimitero di Casale Monferrato ricorda a tutti una tragica verità: dove c’è amianto c’è morte. E se restano ancora 40 milioni di tonnellate di amianto non bonificato sparso fra scuole, ospedali, cantieri e abitazioni in tutto il Paese, nonostante la sua estrazione e commercializzazione sia proibita dal 1992, le vittime continuano a crescere. Nel 2023 hanno perso la vita circa 2.000 persone per mesotelioma pleurico e almeno altre 5.000 sono morte per malattie scatenate dal contatto con il minerale. “Il dato che abbiamo elaborato è ancora sottostimato: i numeri non fanno che crescere e comprendono anche chi non è mai entrato in una fabbrica”, commenta l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto e difensore dei familiari del giornalista Rai Franco di Mare, defunto nel 2023 per mesotelioma. Da anni il legale assiste i parenti delle vittime dell’asbesto e oggi rilancia l’allarme: “Di amianto si muore ancora”. Avvocato, se la lavorazione dell’amianto è vietata da 31 anni, perché crescono ancora le vittime? Le morti arrivano a distanza di molti anni e ce ne saranno ancora molte perché l’Italia è stata il secondo produttore e utilizzatore di amianto in Europa, dietro alla sola Urss. Ma sulla legge 257 del 1992, che proibisce l’estrazione, la lavorazione, la produzione e la commercializzazione dell’amianto, c’è un’ambiguità gattopardesca di fondo. Cioè? Nella norma non si parla di “uso” dell’amianto. Nel tempo, per capirsi, l’Italia ha sviluppato circa 50 milioni di tonnellate di amianto o materiale contenente amianto. Ma la legge impone l’obbligo di bonifica solo per l’amianto friabile, che è una minima parte. Ma anche il cemento, dopo decenni di vita, perde il proprio potere aggrappante e, se esposto alle intemperie e alle escursioni termiche, permette la dispersione di fibre di amianto nell’aria. Questo è il punto chiave di cui nessuno tiene conto: non c’è alcun obbligo generale di bonifica. Chi decide, allora, quando fare le bonifiche? Sulla necessità di bonifica dovrebbero decidere le Asl che, però, se le chiami non rispondono. Non lo fanno per cattiveria, ma perché sono sottorganico. Nel frattempo, a rischio è la salute di tutti gli italiani: se le esposizioni sono sporadiche, la morte arriva nel 5-7% dei casi. Se invece lavori l’amianto tutti i giorni, non c’è scampo. Ci sono categorie più a rischio di altre? Nel tempo, hanno perso la vita molti lavoratori in Fincantieri, nella Marina militare, nelle Ferrovie dello Stato. Ma l’amianto si trova anche in vecchi acquedotti, scuole, ospedali e case costruite fino al 1992. Paradossalmente nel pubblico si trova più amianto che nel privato. Molte aziende pubbliche o partecipate hanno violato le tutele dei propri dipendenti. Al contrario, siccome il privato italiano è costituito perlopiù da una rete di tante piccole e medie imprese, spesso il titolare lavora a fianco dei dipendenti e sta attento per sé stesso. Ma, al di là di questa distinzione, il Ministero della Salute – a prescindere dal colore politico dei ministri che lo hanno presieduto – ha precise responsabilità sulle morti per amianto. Perché? Perché è a conoscenza della lesività dell’amianto fin dall’inizio del secolo scorso, ma non ne ha mai e poi mai evidenziato la pericolosità. Il regio decreto 442 del 1909 già dichiarava le lavorazioni dell’amianto “insalubri”. La legge 455 del 1943 tabellava l’asbestosi come malattia professionale provocata dall’amianto. Ma finché non sono arrivate le carneficine nessuno ha mosso un dito. Dietro alle morti dovute all’amianto, dunque, vede responsabilità politiche? Io ho avuto l’impressione che il tema dell’amianto non lo voglia affrontare nessuno perché non porta a voti immediati. Perché, cinicamente, pensano al fatto che le morti sono solo poche migliaia. Dove si trovano, però, i fondi per bonificare 40 milioni di tonnellate di amianto? In realtà, la spesa sanitaria è maggiore di quella che servirebbe per la bonifica. Si potrebbe formare un numero di giovani come tecnici adibiti alle bonifiche, dare credito d’imposta a imprenditori che bonificano o altre soluzioni del genere. Così, si creerebbero cantieri, posti di lavoro e ci sarebbero meno malati e morti. Ma spesso si fatica a bonificare anche laddove vige l’obbligo. Mi faccia un esempio. I vari Ministeri dell’Istruzione hanno l’obbligo di bonifica dal 1986 e di scuole con amianto ce ne sono ancora 2.400, ma non è mai stata una priorità per nessuno. Quando ho interpellato la politica, mi è stato risposto cinicamente che i morti sono pochi nelle scuole. Eppure, lo sappiamo: bastano dosi bassissime per contrarre malattie mortali da amianto. Ecco perché perdono la vita anche i professori. Sugli alunni, invece, nessuno fa statistiche e, se muoiono a distanza di molti anni dall’inalazione, è difficile capire in qualche contesto è arrivata l’esposizione. Quanto è complicato ottenere rimborsi o indennizzi per i malati? Quando chiedi un risarcimento, devi portare avanti la causa con l’avvocato ma è molto difficile. I procedimenti possono arrivare al terzo grado e durare anni. Se l’avvocato è bravo e riesce a dimostrare l’esposizione di decenni prima, quello che si riesce a ottenere è un risarcimento per gli eredi a molti anni di distanza. Quando gli indennizzi, invece, servirebbero al malato quando è in vita. Non esiste un modo di evitare cause costose? Attualmente il fondo vittime amianto è una prestazione aggiuntiva della rendita Inail, ma serve fare causa per il risarcimento. Io avevo suggerito un fondo che potesse indennizzare le vittime senza procedimenti: se l’Inail accertasse il danno, lo Stato potrebbe indennizzarlo e poi decidere se chiedere un’azione di rivalsa ai responsabili. In questo modo, la vittima potrebbe avere un indennizzo anche prima di morire. Non dimentichiamo che stiamo parlando di questioni molto dolorose, con bambini soli e famiglie distrutte che devono fare causa contro le aziende dello Stato per anni.