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Settembre, la scuola è tornata. I bambini e i ragazzi non ancora

Cronaca

Domenico Barrilà

©Getty

Ricominciano le lezioni e i dibattiti riguardano cattedre vuote, caro scuola, supplenti. Il rischio è di perdere di vista la natura della scuola, che dovrebbe essere sostenuta da tutta la società e non solo criticata

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In questi giorni sono intervenuto all’interno del contenitore Book City, in un quartiere di Milano. Si parlava di bambini. Mi accade spesso di parlare di bambini, non perché mi senta uno specialista, semplicemente perché sono stati loro a insegnarmi a conoscere gli adulti e viceversa. Nella vita degli individui non esistono salti logici, fratture anagrafiche nette, l’adulto nasce insieme al bambino, ne consegue che conoscere uno significa acquisire ottimi indizi sull’altro. Quando lo Stile di Vita comincia a prendere forma, e accade principalmente tra le mura domestiche, si stanno dando i primi colpi di scalpello all’adulto che seguirà. Nei sogni notturni, attuali o dell’infanzia, della stessa persona, mi impressiona la logica ferrea, il senso di continuità che si respira.

La scuola

Il punto però è che quando parliamo di bambini o di ragazzi loro non sono mai presenti, ci confrontiamo tra noi adulti come se spettegolassimo di un’amica o di un amico assenti e stendessimo su di essi la nostra narrazione, senza preoccuparci di acquisire pareri dai diretti interessati, senza osservarne con pazienza le esistenze. Per questo definisco l’educazione un’atipica forma di colonizzazione. Gli stessi pensieri mi visitano tutti gli anni quando è il momento della riapertura della scuola, sulla quale ognuno dice volentieri la propria, magari riferendosi alla “sua” scuola, quella dei decenni passati, quando l’ingrediente fondamentale per la formazione della personalità, ossia l’ambiente, era tridimensionale, del tutto diverso da quello presente, ampiamente virtualizzato. Pure avendo visitato centinaia e centinaia di sedi, non riesco a dire parole certe sulla “scuola”, semmai provo imbarazzo per quei presidi e per quegli insegnanti, per fortuna non sono la maggioranza, che si sentono gli unici padroni di casa, e alzano ancora di più quei muri che non servono a nessuno.

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Scuola e società

Quando la scuola riparte, si parla di tutto, dalle cattedre vuote al “caro scuola”, fino ai supplenti reclutati che accettano l’incarico e dopo un quarto d’ora sono già in malattia (sulla stessa cattedra può accadere anche dieci e più volte). Un fuoco di sbarramento che ci impedisce di parlare della natura della scuola, soprattutto di quanto contiene, di possibili innovazioni didattiche, anche perché chi dovrebbe farlo è soffocato dalla quotidianità, dalle faccende pratiche che negli istituti non sono marginali, perché si tratta di un mondo che comunque “deve” funzionare. La scuola non possiede le forze per ciò che le viene richiesto. Ci vorrebbe tutta la società a sostenerla, ma questa preferisce criticarla, quasi fosse un corpo estraneo, addossandole limiti che proprio essa le trasmette, a cominciare dalla violenza. Questo è un errore ancora più grave di quello denunciato in apertura, perché se è vero che la famiglia rappresenta la fucina dello Stile di Vita, la scuola è il primo grande cancello di controllo verso la comunità allargata. Nella sua classe il bambino è sotto gli occhi di adulti competenti per diverse ore al giorno, non è un particolare da poco perché lo sfondo della vita collettiva è una straordinaria cartina di tornasole, capace di mettere in evidenze la “distanza” che il piccolo interpone tra sé e i propri simili. Distanza, ovviamente, non considerata qui come semplice parametro geometrico, semmai come misura dell’atteggiamento dell’alunno verso ciò che lo circonda. Dunque, la scuola dovrebbe essere messa in condizione di esercitare quasi una funzione diagnostica, non per andare a caccia di malattia, che spesso esiste solo nella fantasia di chi vuole lavarsi le mani o di chi vuole patologizzare anche i sospiri, bensì per aiutare il bambino a correggere ciò che lo mette in rotta di collisione coi suoi simili.

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Educazione e didattica

È a questo punto che la scuola dovrebbe diventare più educativa e meno didattica, mettendo in capo agli stessi insegnanti la sintesi dei due filoni, che non andrebbero mai scissi. Invece, alle prime difficoltà vengono separati, con il lato problematico-educativo spesso appaltato alla psicologia, pubblica o, più facilmente, privata. Sovente vengo interpellato da genitori che vorrebbero, su pressione degli insegnanti, consegnarmi, letteralmente, una bambina o un bambino, procedure che scoraggio facendo presente che devono essere i genitori e gli insegnanti a mettersi in gioco, perlomeno tutte le volte che è possibile, e lo è nella maggior parte dei casi. In genere, questi contatti si fermano al primo colloquio perché gli insegnanti insistono a designare il bambino come paziente, il quale oltre a subire l’impreparazione dei grandi, incamera un giudizio di valore negativo su di sé. Di fronte alle mie resistenze, il bambino viene dirottato verso centri che si occupano di disagio scolastico, che in realtà nasce altrove e si manifesta a scuola. Mettiamoci, tanto per non stare sul vago, nei panni di minori costretti a crescere in luoghi fisicamente e sociologicamente mostruosi, e domandiamoci perché costoro dovrebbero sentire come propria la società allargata, quale sarebbero le ragioni per le quali essi sarebbero tenuti ad amare chi li tiene ai margini o addirittura contribuire al loro benessere.

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I bambini al centro

Sono nato e cresciuto in uno di quei luoghi, credo di sapere di cosa si parla e posso affermare con certezza che intervenire repressivamente su persone poco più che bambine, regalerà alla società dei nemici giurati. Mostrare i muscoli a una creatura in formazione, entrata nel mondo dall’ingresso sbagliato, pone le premesse di un fallimento sicuro. Le persone, quelle più giovani in particolare, sono sensibilissime alle ingiustizie e alle discriminazioni subite, reali o presunte che siano, persino all’interno delle famiglie, dove la gelosia tra fratelli è all’ordine del giorno e le conseguenze sono sempre importanti. I “figliastri” della società alla prima occasione presenteranno il conto, purtroppo anche distruggendo le proprie vite. Si invoca più famiglia, più figli, ma pochi si rendono conto che manutenere una simile impresa significa introdurre nella collettività competenze umanistiche e tecniche enormi, affiancamenti costanti, contributi e servizi di qualità. Ma intanto si dovrebbe cominciare a mettere in conto che un figlio oggi non è il figlio di mezzo secolo fa, troppi fanno finta di non capirlo. Invece di fare le pulci a chi cerca i legami in modo eterodosso o genera non secondo canoni stabiliti da chi comanda, sarebbe meglio “riconoscere” quanto sale dal basso e dedicare le energie delle istituzioni a bonificare le comunità da altre insidie. Incitare alla natalità, magari sotto la pressione di gruppi integralisti, senza neppure immaginare quanto sia inadeguato, datato o addirittura assente il welfare nel nostro Paese, è esso stesso un atto di avventatezza. Rimettere davvero i bambini al centro della vita civile, a cominciare da quella scolastica, possibilmente in modo non ideologico, è l’unico modo per tornare a sperare di rimanere un Paese che può reclamare il diritto ad avere un futuro. Questo miracolo può avvenire solo attraverso la scuola, a patto che non la si lasci da sola e la si smetta di mortificare i pochi o i tanti che la amano e la sostengono.