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Youtuber all'autoscontro e psicologia imponente

Cronaca

Domenico Barrilà

Ogni, bambino, ogni ragazzo, ogni persona costruisce le sue finzioni, mettendo a punto un’idea di mondo fondata su premesse strettamente soggettive, impossibile che due persone costruiscano la stessa finzione, ne consegue che lo psicologo deve avere la capacità di interpretare la singola finzione che agisce in quella precisa persona

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Se vogliamo evitare scorciatoie sull’insopportabile incidente di Roma, dobbiamo partire da alcune elementari considerazioni, prima di finire nella sgradevole e affollata strettoia dove non ci sono responsabili e nemmeno lezioni da imparare.

Per capire cosa è successo in quella minuscola ma tragica guerra stradale, in cui si è persa per sempre, oltre alla vita del piccolo bimbo di Roma, anche una parte cospicua di due giovani genitori, occorrerebbe stabilire in che contesto si è formato l’investitore, perché quell’irragionevole e prepotente, nelle proporzioni, bisogno di essere captato dal mondo è stato coltivato da qualche parte. Quell’incapacità di ragionare sulle conseguenze delle proprie azioni, dice che il tratto caratteristico della nostra specie, la compassione, non c’è più in certe persone, che esiste solo il loro corpo e ciò che contiene, un organismo assetato di approvazione anche a costo della vita, propria e altrui. Eppure, ecco dove la psicologia si ostina a sbandare facendosi filosofia e sociologia, ma noi possiamo parlare solo e soltanto dell’investitore e di chi lo ha introdotto nel mondo, allargare il giudizio è un errore metodologico nonché un atto di grave disonestà.

A nessuno può essere consentito di rappresentare una generazione intera, neppure al ragazzo di 20 anni che ieri, mentre insieme a un mio amico giardiniere cercavo vanamente di caricare sul furgone un tavolo pesantissimo, si è fermato offrendoci un soccorso rivelatosi decisivo. Glielo aveva chiesto solo la sua coscienza, formata in modo prosociale, quindi capace di compartecipare emotivamente. Anche in questo caso, il suo gesto parla solo di lui e dei suoi educatori, esattamente come l’incidente parla solo del conducente e dei suoi primi compagni di viaggio, i familiari.

Lo stesso discorso possiamo replicare per l’uccisore di Giulia Tramontano, testimone di sé medesimo, per fortuna. Anche lui collassato all’interno della propria persona, troppo angusta perché ci potessero stare altri individui.

 

 

Proprio questo è il punto in comune tra i protagonisti di tali vicende, una formidabile carenza di sentimento sociale e della sua conseguenza più alta, quella compassione che evita, ogni giorno, che la nostra specie punti diritta verso l’estinzione. Vero, qualcosa è cambiato negli ultimi 20 anni, la realtà perde consistenza virtualizzandosi, con tutte le conseguenze del caso, che magari valuteremo in un’altra circostanza, ma le linee di indirizzo nella psiche del bambino si strutturano, come sempre, piuttosto presto, prima dell’ingresso a scuola elementare, dove egli arriva con precisi finalismi di sicurezza e di autovalorizzazione, di cui dovrà verificare correttezza e compatibilità con gli interessi altrui. Tutto questo sarà messo sotto verifica proprio nel suo rapporto con quella primitiva realtà sociale allargata, ma il tempo che precede l’ingresso a scuola primaria, il piccolo lo trascorre quasi per intero in famiglia, dove si impregna di stimoli importanti e, spesso, ingombranti, considerata la sua ancora scarsa capacità critica, che si porterà dietro come un’impronta. In questi giorni abbiamo potuto farci qualche idea in proposito, confermandoci che quanto accade

nella vita interiore del bambino riguarda i genitori, prima di tutto, il resto viene dopo, molto dopo, sebbene dopo il perimetro di padri e madri vi sia davvero poco, soprattutto nei vertici, incapaci di affiancare chi sta al fronte, scuola compresa. Questo vale per tutta la classe dirigente, con rarissime eccezioni, comunque non determinanti. Il Paese si è scollegato dalla missione educativa, per incompetenza e strafottenza, eppure pretenderebbe che i suoi cittadini figliassero di più.

Uno dei grandi meriti di Alfred Adler è quello di avere trasformato le presunte certezze della psicologia in un semplice sistema di finzioni, privandola di quella carica di potere e di suggestione che si era attribuita con la nascita della psicoanalisi. La finzione è qualcosa che sta a cavallo tra la realtà e il niente. La similitudine di cui si serviva lo studioso viennese era quella dei meridiani e dei paralleli, che non esistono ma possono aiutare a orientarsi nello spazio. Una trovata geniale, perché la psiche della persona funziona proprio attraverso delle finzioni, quindi per raccapezzarsi bisogna ragionare allo stesso modo.

Ogni, bambino, ogni ragazzo, ogni persona costruisce le sue finzioni, mettendo a punto un’idea di mondo fondata su premesse strettamente soggettive, impossibile che due persone costruiscano la stessa finzione, ne consegue che lo psicologo deve avere la capacità di interpretare la singola finzione che agisce in quella precisa persona. Quella e solo quella. Quando avanza delle generalizzazioni, anche timide, deve farlo con prudenza. Continuare a ripetere quello che dicevano i padri fondatori quando si andava ancora a piedi, significa essere schiavi delle teorie, lontani dalla realtà situata. Puri, inutili, esercizi di stile.

Mi accade di ricevere genitori che perdono una figlia, un figlio, il più delle volte a seguito di un incidente stradale, prima causa di morte tra i giovani. Quasi tutti, non saprei per quale ragione recondita, forse per regalare loro un ulteriore lembo di esistenza, mi lasciano una foto della ragazza o del ragazzo, che conservo insieme alle altre in una cartella appoggiata sulla scrivania. All’inizio era lucida e sottile, col passare degli anni, goccia a goccia, si è ispessita, perdendo anche quella patina del nuovo che aveva un tempo.

Parlare con dei genitori “orfani” di un figlio che non c’è più è illusione, pura impotenza, raramente mi è accaduto di trovare un’espressione che dopo un minuto non mi apparisse inutile. Non esistono rimedi, tantomeno funziona la cura delle parole, perché la morte crudele e immotivata di un figlio rende sordi. 

 

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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