Buon Anno a ciò che non si vede. Perché ci riguarda
Cronaca ©AnsaIl carcere fa parte dell’invisibile, come l’inconscio, come la pazzia, come i migranti, come tante altre realtà confinate nei sottoscala. La sua esistenza diventa nota quando, esasperato, esplode, ma anche questo è solo un passaggio intermedio. Bisogna entrarci, visitarlo, esperienza che lo Stato dovrebbe rendere possibile persino ai bimbi. Parlo di uno Stato che non si vergogna di come custodisce i detenuti
C’è un tempo nella nostra vita, proprio agli albori, durante il quale esiste solo ciò che si vede, qualche volta appena lo spicchio di parete che guardiamo attraverso i pilastrini della culla. A quell’epoca il mondo coincide coi minuscoli territori coperti dai nostri occhi, dove è presente solo ciò è presente. L’altrove è una rappresentazione troppo sofisticate, arriva dopo, solo allora quello stato a misura di sguardo comincia a sbriciolarsi, almeno per gli studiosi di psicologia dello sviluppo, perché in realtà le cose vanno diversamente, talvolta molto diversamente, perché siamo noi stessi a escludere dalla nostra considerazione ciò che non si vede. Un modo come un altro per non porsi domande su di sé.
Il carcere fa parte dell’invisibile, come l’inconscio, come la pazzia, come i migranti, come tante altre realtà confinate nei sottoscala. La sua esistenza diventa nota quando, esasperato, esplode, ma anche questo è solo un passaggio intermedio. Bisogna entrarci, visitarlo, esperienza che lo Stato dovrebbe rendere possibile persino ai bimbi. Parlo di uno Stato che non si vergogna di come custodisce i detenuti.
Volti e storie dal carcere
In questi giorni, mentre si discuteva della fuga dei ragazzi dal minorile intitolato a Cesare Beccaria, uomo illuminato e quasi privo di successori all’altezza, facevo memoria delle carceri nelle quali sono entrato per confrontarmi coi detenuti, invitato da associazioni che collaborano con gli istituti di pena o, addirittura, dagli stessi responsabili delle strutture.
Di ogni passaggio rammento i luoghi e le persone, alcune in particolare.
L’uomo mite, educato. Aveva ucciso, in un impeto d’ira e di disperazione, la persona che credeva essere l’amante della moglie. Non fu mai sicuro che la storia fosse davvero come gliel’avevano raccontata, questa la sua vera pena. “Ero un marito giovane insicuro, quando cominciarono a girare quelle voci, tornarono a galla tutti i miei tormenti di ragazzino che si sentiva insignificante e che si era sentito riscattato da quella storia d’amore. Solo lei mi aveva voluto”.
Il padre di etnia Rom che, dopo avermi abbracciato e ringraziato per la chiacchierata collettiva in biblioteca, volle presentarsi in figlio, anch’egli recluso. Ne era fiero. La paternità è come la materia oscura, ci pervade, a prescindere dagli interpreti. È un pilastro, del visibile e dell’invisibile.
Il mafioso recluso in massima sicurezza, che mi aveva letto la fiaba per bambini scritta da lui stesso, incentrata su una fatina che aveva sottratto alla brutta strada tanti ragazzini. Si lamentò dei genitori, commosso e arrabbiato. “Avessi avuto un padre e una madre capaci di guidarmi, non avrei ucciso delle persone e non mi sarei rovinato la vita”. A proposito del ruolo degli educatori nella costruzione del destino di una comunità.
I ragazzi di un carcere minorile, con cui collaborai per un progetto, non è ironia, sulla legalità in Sicilia. Ascoltare quei minori, gemelli di quelli del Beccaria, la cui vita sembra compromessa già sulla soglia d’ingresso, aiuterebbe molti loro coetanei, ma soprattutto gli adulti che parlano solo di sicurezza, quasi fosse una loro ossessione personale, creando così pregiudizi inestinguibili verso chi sbaglia, spesso per disperazione. Le carceri sono piene di Jean Valjean, che si era fatto venti anni di lavori forzati dopo un furto perpetrato per fame.
Un ragazzo in prigione è come un maratoneta senza finalismi, senza meta, come accade a un sasso, solo che il sasso non se ne accorge, dunque non può disperarsi.
Il gruppetto di musulmani che aveva rimandato la preghiera per non perdere la possibilità di stare tutti insieme. Ero arrivato tardi, non per colpa mia, l’agente che doveva prelevarmi in albergo aveva avuto un intoppo, e l’incontro coi detenuti, rimasti in attesa senza fiatare, era slittato di un’ora e mezza. Prendendo la parola mi ero scusato. Un signore della mia età, garbato e gentile era intervenuto: “Perdoni dottore, a quest’ora noi abbiamo la preghiera comune nella cella-moschea, ci spiace non poterla riascoltare, ma dobbiamo andare”. Una decina di persone di religione musulmana si erano alzate, salutando con le mani giunte e avevano lasciato il salone. Erano tornati subito. “Abbiamo discusso e crediamo di potere rinviare la preghiera, vogliamo stare con lei e i nostri fratelli detenuti”.
Ero già stato in quel luogo, e ricordavo quelle persone.
Il quarantenne che rapinava portavalori insieme alla sua banda. Uomo solido, libero da ipocrisie, certo criminale. Si laureò in carcere con una bella tesi sul sistema carcerario italiano, me la inviò. Ironia della sorte, mi fu derubata insieme al computer che la conteneva. Uscito per buona condotta, a ridosso della scadenza della pena, ricascò nella tentazione e tornò al punto di partenza. Quando entri in prigione, in qualche modo non ne esci più, ma le misure alternative non sono amate da tutti i legislatori.
Teresa, quinta elementare, che andai a trovare in carcere. Il maritò molestò le figlie, ma finì dentro anche lei. “Non poteva non sapere”, sentenziò il giudice. L’avevo vista per un anno dopo l’arresto del marito. Riuscimmo a mitigare la pena in appello, ma non a cancellarla, e Teresa entrò in prigione. Dovettero vendersi la casetta per pagare gli avvocati. Non si lamentò mai di giustizia a orologeria, si sarebbe accontentata di goderne un filo di quella con umanità acclusa.
Potrei allungare la lista, non è il caso, vorrei solo ricordare che in carcere c’è anche Al Capone. Appunto, “anche”. Il resto è esattamente come noi, senza neppure i dieci piccoli particolari che ci invita a cercare il giornale di enigmistica, ma, diciamocelo serenamente, a tutti fa comodo sapere che esistono luoghi di espiazione, come se chi paga il suo prezzo potesse estinguere anche i nostri.
Purtroppo, non funziona così, il nostro debito rimane, con l’aggravante che decine di migliaia di persone, private della libertà e, quello che è peggio, della dignità e della prospettiva di un vero lavacro, di un recupero, diventeranno acerrime nemiche di chi sta fuori. Per cogliere la dimensione di tale risentimento, basterebbe pensare a quanto ci sentiamo feriti quando qualcuno, anche solo per distrazione, ci ignora o non ci saluta.
La privazione della libertà basta e avanza. Il resto è dovere di rieducazione.
approfondimento
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Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).
È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/