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Da Positivo anonimo a pluri (rin)-tracciato e… privilegiato

Cronaca

Pio d'Emilia

Dalla bolgia del Sant’Andrea all’astronave dello Spallanzani. Sognando il Giappone ed il ritorno in Asia, dove tutto sembra davvero finito

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Sono passati dieci giorni dalla “sorpresa” del tampone positivo. Fatto per puro controllo, per poter viaggiare e rientrare in Giappone e invece…Mi sono ritrovato positivo. Sia pure, sul  momento, asintomatico (ma poi i sintomi sono arrivati). Tant’è che alla fine ho dovuto ricoverarmi. Dall’iniziale incredulità, sorpresa e diciamolo pure, senso di abbandono (ricordate il mio primo video/articolo pubblicato qui, martedi scorso, in cui lamentavo il fatto che nessuno mi aveva contattato e che l’app Immuni, diligentemente scaricata, non funzionava) sono passato ad una fase di tranquilla e ottimistica rassegnazione. Non sono l’unico a trovarmi in queste condizioni, e, devo ammetterlo, mi sento comunque un privilegiato.  Soprattutto ora che sono “atterrato” allo Spallanzani, il top assoluto italiano, eccellenza europea, se non mondiale, della lotta al Covid. Sarà un caso, ma appena messo piede qui, sabato sera, il mio “ospite” indesiderato si è subito dato una calmata. La mia saturazione, che nei giorni scorsi, a casa, era scesa pericolosamente e “ballava” anche sotto i 90, si è di nuovo stabilizzata, anche senza l’ausilio dell’ossigeno. Sarà anche questione di ansia, per carità, ma qui il virus sanno come trattarlo, e penso si sia già intimidito. Ora vediamo di cacciarlo definitivamente, in modo che possa presto tornare a raccontarvi quello che succede in Asia, il continente del “futuro” (anzi, del presente, oramai, anche se pochi ancora se ne sono resi conto).

La situazione nei pronto soccorsi: il Sant’Andrea

Purtroppo non tutti hanno la fortuna di approdare allo Spallanzani, e non ci può venire direttamente. Qui non c’è una postazione di pronto soccorso: ci si arriva solo dopo essersi recati in altri centri attrezzati per il Covid, che poi smistano i pazienti più gravi, che necessitano di ricovero,  a seconda delle disponibilità. Dove mi sono recato inizialmente io, al Sant’Andrea, ho trovato una situazione drammatica (vedi foto).

Il pronto soccorso

Il pronto soccorso (giustamente) cerca di accogliere tutti quelli che si presentano (direttamente, perché stanno male, o perché ce li porta l’ambulanza) e fare una prima valutazione. Ma i pazienti, al momento del mio arrivo ce n’erano una cinquantina, sono “parcheggiati” in astanteria, corridoi, un paio di sale attigue. Il reparto è pieno. Si fa, ed è comunque molto, quello che si può. Nonostante la situazione, nel giro di poche ore (nel mio caso circa 4 ore), ti registrano, fanno i prelievi, ecocardiogramma e TAC e ti fanno una prima diagnosi con suggerita terapia. Soprattutto, hanno sempre una parola gentile, un gesto affettuoso, una battuta per tirarti su. E non deve essere facile, neanche per loro, mantenere la calma e svolgere il proprio, difficile e delicatissimo lavoro. Se non sei troppo grave ti rimandano a casa (il problema è che poi devi aspettare un transfer dedicato, perché le ambulanze non ti riportano a casa e da positivo non puoi prndere mezzi pubblici o taxi… e spesso ci vogliono ore e ore prima che arrivi), altrimenti ti ricoverano. Ed è qui che cominciano i problemi. Perché posti nel reparto non ci sono, e restare, come sta succedendo a molti pazienti, per giorni e giorni su una brandina in pronto soccorso non è una soluzione dignitosa: né per i pazienti (ho visto una signora, sola, evidentemente con altre patologie oltre al Covid che urlava continuamente e alla quale erano stati costretti a legare le mani perché si faceva del male) né per il personale sanitario. Al quale va ancora una volta espressa enorme ammirazione, gratitudine, solidarietà. Non è facile operare in queste condizioni, con turni massacranti, precettazioni improvvise e (mi dicono) con indennità ridicole (quando ci sono). I più fortunati riescono a trovare un posto in altri ospedali, che di volta in volta comunicano la loro disponibilità. Come fa, per l’appunto, lo Spallanzani.  Da quando sono qui mi hanno detto che il viavai è notevole. Buon segno, parrebbe, perché significa che i pazienti arrivano, vengono “trattati” e poi, se possibile, rimandati a casa con la loro terapia domiciliare. E’ quello che spero succeda a me, quanto prima.

La terapia a domicilio: le unità speciali

A proposito di terapia domiciliare – indubbiamente l’unica soluzione davvero logica e sostenibile per un sistema che rischia il collasso – debbo dire che dopo il mio appello/denuncia e la partecipazione alla trasmissione “Numeri della Pandemia” di lunedì scorso, le cose si sono mosse. E ringrazio l’assessorato della Sanità della Regione Lazio che si è attivato per far partire il servizio. Una gentile ed efficace dottoressa mi ha contattato e si è messa a disposizione per seguirmi a domicilio. Per avere il servizio bisogna chiamare l’ASL di competenza, spiegare la situazione e attendere pazientemente.  Si chiamano Uscar (Unità speciali continuità assistenziale regionale)  e sembra siano già operative e destinate ad essere rafforzate. Nel mio caso ha funzionato, spero sia così per chiunque ne abbia bisogno. Funziona allo stesso modo anche presso la Asl di Belluno, dove ho la mia “residenza” italiana, e da dove anche si sono  fatti vivi, dopo il mio “appello”, con molta efficienza e disponibilità, anche se purtroppo  la situazione sta precipitando anche  lì.

 Questo per quanto riguarda il sottoscritto. Passato da soggetto “positivo anonimo” a “pluri-rin-tracciato” e…accudito.  Ora speriamo solo che la situazione continui a migliorare, la terapia funzioni e che possa tornare presto a casa, lasciando questo prezioso posto a chi ne ha più bisogno.

L'Europa (ri)chiude, l'Oriente riapre. È il Secolo Asiatico

Prima di chiudere, non posso, essendo il corrispondente da Tokyo e dall’Asia Orientale, non segnalare che proprio mentre l’Europa è costretta a “richiudersi”, in Asia la situazione sembra essere davvero sotto controllo. E questo non solo in Cina, “laddove tutto è iniziato” (ma sembra anche finito…), dove i contagi si contano oramai sulle dita e dove appena emerge un nuovo focolaio si effettuano milioni di tamponi in poche ore (è successo giorni fa nello Xinjiang), ma in tutti, proprio tutti i paesi dell’area. Dalla Corea al Vietnam, alla sorprendente Taiwan, dove sono oramai 200 giorni che non si verifica un nuovo contagio e dove questo week end oltre 100 mila persone hanno celebrato, legalmente e pacificamente, l’annuale Gay Pride. L’unico paese a poterselo permettere. E persino il “mio” Giappone pare abbia vinto la “sua” scommessa. Una scommessa che nei miei servizi avevo spesso definito azzardata ma che sembra aver funzionato. Giusto fare ammenda e ammettere i propri errori di valutazione. Certo, continuano a fare un numero ridicolo di tamponi “ufficiali”: un migliaio a Tokyo, 6-7mila al giorno in tutto il paese. Ma i morti non si nascondono e gli ospedali non denunciano emergenze: siamo a 1766  morti dall’inizio della pandemia, 102 mila contagiati, di cui 93 mila già guariti. E questo senza nessun vero e proprio lockdown (che la Costituzione tra l’altro vieta): sono bastate le sane abitudini socio-sanitarie dei giapponesi (mascherine sempre e comunque, pochi contatti fisici, niente baci e abbracci) ed il loro senso di responsabilità e di educazione. E dopo mesi di frontiere (giustamente) prima sigillate, poi socchiuse, da ieri il Giappone ha annunciato la riapertura totale alla maggior parte dei paesi asiatici, Cina compresa. Per i cittadini europei – italiani compresi – per ora restano le attuali disposizioni: si può entrare se muniti di visto di lavoro e permesso di soggiorno, previo tampone negativo effettuato entro 72 ore dalla partenza. Questo per ora: ma la situazione potrebbe di nuovo cambiare, in base a quanto succederà qui in Europa. In ogni caso, e non è facile, anche se sempre doveroso, ammettere i propri errori, devo confessarlo. In questo momento vorrei tanto essere “a casa”, a Tokyo, e godermi in relativa tranquillità la splendida kohyo, la stagione delle foglie cangianti, con piena, ancorchè responsabile, libertà di movimento. Non c’è alcun dubbio, Asia docet. Fatevene, facciamocene, una ragione.

Pio d'Emilia e un'infermiera dello Spallanzani