Ucraina, un anno dopo
Immagini, storie e volti nei reportage dal Paese che resiste
A un anno dall'inizio del conflitto con la Russia, Sky TG24 è tornata in Ucraina con gli inviati Jacopo Arbarello, Eleonora Fedeli e Fabrizio Stoppelli per una serie di reportage dal cuore del Paese che combatte e resiste per il suo futuro, grazie anche al sostegno dell'Unione Europea e della Comunità internazionale. Un viaggio a tappe nelle città e nei luoghi simbolo dell'Ucraina martoriata dalla guerra, a pochi giorni da quel 24 febbraio che, nel 2022, ha cambiato per sempre la Storia di questo Paese e del mondo intero.
Il viaggio di Sky TG24 in Ucraina
Prima tappa
ODESSA
Musica e teatro come forma di resistenza
Con la musica e con l’arte si può combattere, o quantomeno resistere. Certo è una battaglia dalle retrovie. Ma nella guerra in Ucraina c’è un intero popolo coinvolto a difendersi dall’invasione russa. E tutto serve. Mantenere alto il morale della popolazione, di tutta la popolazione, è sicuramente una priorità se si vuole vincere una guerra contro un nemico più forte. Tutti uniti, tutti insieme, anche a teatro. Appena arrivati a Odessa, la capitale marittima dell’Ucraina, ci hanno subito colpito i manifesti degli spettacoli teatrali, del circo, dei concerti. La città, in parte militarizzata, con il porto e le spiagge bloccate dalla guerra, non si ferma, bar, ristoranti e negozi sono aperti anche in mezzo agli allarmi antiaerei e ai blackout, e continuano gli spettacoli. E’ una forma di lotta, di resistenza all’aggressione. Aleksey Petukhov, uno dei più grandi pianisti jazz del paese, lo fa suonando. Gli attori recitando. Nel piccolo teatro del centro dove siamo stati accolti dalla direttrice, abbiamo trovato una compagnia di giovani attori che non ha mai smesso di lavorare. Durante i primi durissimi mesi, quando la città era nel mirino dell’avanzata russa, hanno organizzato spettacoli gratuiti nei rifugi sotterranei, nei sottoscala, perfino nei parcheggi. Poi da fine giugno è ripartita la stagione. Il teatro si è organizzato con i generatori, perché i blackout, dovuti ai bombardamenti russi sulle centrali elettriche, arrivano inaspettati, anche quando si va in scena.
Ma i ragazzi non si fanno scoraggiare, ad animarli non è solo la passione, ma la sensazione di essere utili alla comunità. “Non lo faccio solo per me – ci dice una delle attrici – ma perché la gente ha bisogno di stare bene, di essere felice dentro, perché quello che accade fuori è atroce”. Per Aksana Burlay Piterova, la direttrice, questa è una forma di resistenza culturale. Una resistenza che si manifesta e si declina nel principale cambiamento deciso dalla direzione del teatro a partire dall’inizio della guerra. Prima del 24 di febbraio qui si recitava, alternativamente, in russo o in ucraino, senza farsi troppi problemi. Anche perché Odessa, fondata da Caterina II alla fine del 1700, è sempre stata una città di lingua russa, cosmopolita, libera, ma con una cultura influenzata da secoli di dominazione da parte dell’impero russo. Dal 24 di febbraio, invece, qui si recita solo in ucraino. “Non è un segno di censura – dice Aksana – semplicemente non vogliamo avere nulla che ci accomuni con l’invasore, con gli occupanti”. L’incontro con Aleksey è se possibile ancora più forte. “All’inizio della guerra non ho suonato per 3 settimane” ci racconta, “ero sotto shock, la musica dentro di me era finita. Poi mi sono accorto che i miei studenti avevano ancora bisogno dei miei insegnamenti, e piano piano sono tornato a suonare e ho organizzato il primo concerto nei sotterranei di un teatro. E poi ho continuato, perché ho capito di aver bisogno di suonare, ma soprattutto perché ho visto le facce felici delle persone dopo il mio concerto. Ho visto che la mia musica gli faceva bene. E ho sentito di fare qualcosa di importante”. Prima di salutarci Aleksey ci suona alcuni dei suoi pezzi jazz su un vecchio pianoforte all’interno di una galleria d’arte del centro di Odessa. Sono splendidi. Tra le opere esposte anche una sezione di un missile grad caduto a devastare una casa nella vicina provincia di Kherson. Accanto al missile, ecco un frammento, entrato nella ciabatta di uno degli abitanti della casa. Questa guerra gli ucraini la combattono con tutti i mezzi che hanno. Anche l’arte, in tutte le sue forme, serve alla vittoria. Perché aiuta a tenere duro. E’ una necessità, come le armi.
Odessa patrimonio Unesco, perché adesso?
Non si lanciano bombe contro una bellezza universale. Anche per questo Odessa e l’Unesco hanno affrettato i tempi. Il 25 gennaio scorso Odessa e il suo porto sono stati dichiarati patrimonio mondiale dell’Unesco, e la guerra ha il suo ruolo in tutto questo. La perla del Mar Nero, fondata da Caterina II a cavallo tra 1700 e 1800, città di lingua e cultura russa, ma ormai di solida identità ucraina, è considerata dai russi madrepatria. Per questo era tra i principali obiettivi dell’invasione iniziata il 24 di febbraio. Qui le bombe e i missili hanno colpito il porto e la periferia ma hanno risparmiato il meraviglioso centro storico, forse perché i russi non sono arrivati a distanza da poter colpire, forse perché anche la furia dei generali ha avuto pudore nel colpire una città che per le sue bellezze è considerata la gemella ucraina di San Pietroburgo. Sta di fatto che il governo cittadino ha iniziato una corsa contro il tempo per far dichiarare la città e il suo porto patrimonio Unesco. Anche il porto, nonostante sia un normale ammasso di banchine. Anche il porto perché, recitano le motivazioni, senza il commercio dovuto al porto Odessa perderebbe la propria anima, morirebbe anch’essa. Costruita ad opera di architetti europei, italiani e francesi, con i suoi palazzi ottocenteschi che arrivano fino al Liberty di inizio novecento, Odessa gratifica la vista di chi la scopre per la prima volta e di tutti i suoi abitanti. Città portuale e marittima, ha nel commercio la sua anima vitale. A guidarci per le sue bellezze e a farci amare il suo spirito è Nikolay Viknyasnskij, il leader del comitato tecnico che ha fornito i contenuti per la candidatura Unesco. Come prima tappa ci porta alla Sinagoga, perché ci dice, rappresenta la storia di Odessa, che è sempre stata la città più multiculturale dell’Ucraina. Qui, prima di un eccidio barbaro voluto dai nazisti e perpetrato dagli ucraini loro alleati, viveva una enorme comunità ebraica, perfettamente integrata: “Perché a Odessa, da sempre – spiega Nikolay – non conta do dove vieni o di che religione sei, ma cosa fai. Siamo imprenditori per natura e amiamo i soldi”.
Poi Nikolay ci guida verso la piazza centrale, davanti allo splendido teatro dell’Opera e ce ne disvela la simbologia: “Guardate, al contrario di tutte le città russe, nate intorno alle fortificazioni militari, Odessa è sorta intorno al teatro e alla borsa valori, che adesso è diventata la sede del comune. Luoghi di divertimento e luoghi dove si facevano i soldi. E con i soldi i ricchi hanno chiamato i più bravi architetti e artisti dell’epoca per poter costruire palazzi e case principesche”.
Così Odessa è diventata prima bella e poi una delle mete turistiche principali dell’Ucraina, con spiagge e club notturni, nonostante sia sempre stata una città di lingua e cultura russa, almeno fino al 24 di febbraio. Qui nel 2014 i ribelli filorussi si scontrarono con gli europeisti di piazza Maidan, e tra i filorussi ci furono oltre 40 morti in un eccidio che è ancora considerato dalla propaganda del Cremlino come una delle prove del nazismo del governo di Kiev. Ma alla fine Odessa scelse di restare in Ucraina, per quanto con una popolazione ancora divisa.
Dopo l’invasione di febbraio le cose sono però rapidamente cambiate. Lo spirito libero e imprenditoriale della città è stato pesantemente colpito dal blocco navale imposto dalla guerra, eccezion fatta per il transito del grano dai corridoi umanitari. E la città è stata comunque bombardata più volte, dal mare e dal cielo, anche se non in centro. Gli ultimi missili hanno distrutto una delle principali centrali elettriche, e anche qui, come nel resto del paese, le interruzioni di corrente sono all’ordine del giorno. La povertà, senza il commercio delle navi e con l’economia in crisi, avanza ogni giorno di più. Davanti ai centri di distribuzione degli aiuti umanitari la fila è ogni giorno sempre molto lunga, così come davanti ai camioncini dove si regalano pasti caldi. Per proteggersi dai bombardamenti la bella Odessa ha chiesto e ottenuto una procedura d’urgenza per diventare patrimonio mondiale Unesco. Ma Odessa soffre tremendamente di questa guerra, anche se non è in prima linea. E più soffre più diventa ancor più convintamente ucraina, da divisa che era.
Accordo sul grano a rilento
L'accordo per i corridoi umanitari sul grano ucraino funziona ogni giorno di meno. È questa la denuncia che raccogliamo dal vice presidente dell’Autorità portuale marina Ucraina, Dmytro Barinov. Se a settembre e ottobre si riuscivano ad esportare quasi 4 milioni di tonnellate al mese, non lontane dalle 5 dei mesi prima della guerra, con il passare dei mesi il numero di navi in partenza si è via via assottigliato: "Potremmo gestire fino a 20 navi al giorno, ma non ne escono più di 2 o 3 perché i controlli sono sempre più lenti - ci spiega Barinov - così i nostri stock di prodotti agricoli sono più che raddoppiati da quando a luglio è stato implementato l'accordo. Siamo passati da 20 a 40 milioni di tonnellate nei nostri magazzini. È cibo che serve soprattutto a sfamare i paesi più poveri del mondo, e che è bloccato nei nostri depositi". Guardare il mare dalle banchine di Odessa fa un certo effetto. E' deserto. Grazie alla guerra e al blocco navale imposto dalla Russia non si vede neanche un barchino, in acque che comunque nel frattempo sono state minate da entrambi gli eserciti.
"Il porto lavora al 10-15% delle sue possibilità - spiega Barinov - ma soprattutto dei 18 porti che l'Ucraina aveva prima del 2014 adesso ce ne restano solo 6 operativi. Tutti gli altri sono in mano russa come Mariupol o Berdyansk, o distrutti come quello di Kherson. Con danni che non siamo neppure in grado di calcolare". I danni economici sono ben chiari invece girando per le strade di Odessa, una città che viveva sull'indotto del porto, che era il più importante del paese. Indotto che ora è praticamente azzerato, visto che circolano solo i cereali, e anche in quantità molto inferiori al passato. Di conseguenza cresce la povertà. Lunghe file davanti ai centri di distribuzione di aiuti umanitari, dove viene dato di tutto, dai vestiti ai giocattoli, e lunghe file davanti ai camioncini che distribuiscono i pasti caldi. L'economia ucraina in generale è in crollo verticale a causa della guerra. Quella di Odessa lo è ancor di più, visto che la città viveva del porto, dei commerci e della relativa logistica. Tutte attività sostanzialmente ferme. Sono deserte le banchine del porto, con centinaia di navi bloccate, ed è deserto il Mar Nero, come nessun mare lo è al giorno d'oggi davanti a una grande città.
Seconda tappa
MYKOLAIV
La storia di Maryna: due figli e marito prigioniero
Le scuole e le università di Mykolaiv sono ancora tutte chiuse. E non solo per le bombe che le hanno colpite nei mesi in cui la città era sotto il tiro dell'artiglieria russa, cioè fino alla liberazione di Kherson. Anche dopo, l'amministrazione regionale ha deciso che le lezioni sono solo da remoto. Alcune famiglie soffrono particolarmente la scuola online. È il caso di Maryna, che ha due figli, e il marito prigioniero dei russi. Era uno dei difensori di Mariupol e ha perso i contatti con lui dal 21 marzo. Sa solo che è vivo, anche se è stato ferito, e spera torni, prima o poi, con uno scambio di prigionieri. Nel frattempo, con le scuole chiuse, Maryna non può lavorare. Deve occuparsi della figlia maggiore, Anna, che ha un disturbo, non parla, e soffre particolarmente le lezioni online. Non parlando è difficile passare ore e ore davanti a uno schermo. I ragazzi più fragili soffrono particolarmente l'assenza di contatto umano, e Maryna prova a compensare portando la figlia a incontrare altri ragazzi nelle case degli amici. Senza poter lavorare, però, i soldi in famiglia sono troppo pochi, e Maryna non può permettersi la stufa a gas. La sua casa è riscaldata a legna. In tutta l'Ucraina dall'inizio della guerra sono stati danneggiati 2.600 istituti scolastici, e tra questi 40 sono stati distrutti. Oltre 5 milioni di ragazzi non hanno accesso ad una istruzione completa. E come abbiamo visto per famiglie come quella di Maryna l'assenza della scuola è particolarmente difficile. Significa meno soldi, meno riscaldamento, meno cibo.
Mykolaiv senza acqua potabile
Senza acqua potabile si vive male. E nelle case di Mykolaiv quella che arriva non è buona neanche per essere bollita. Bisogna uscire, armarsi di taniche, e andare a fare rifornimento nei punti di distribuzione gratuita messi in piedi dal governo locale. Nei mesi in cui la città era bombardata quotidianamente dall’artiglieria, cioè fino alla liberazione di Kherson in novembre, i russi hanno distrutto l’acquedotto che portava l’acqua dolce dal fiume Dnipro, lungo 73 chilometri. La soluzione trovata per permettere agli abitanti almeno di lavarsi in casa propria è stata quella di pompare nel sistema l’acqua dal fiume locale, che però si mischia al mare. L’acqua che arriva così è salata, ma soprattutto non potabile. E tra l’altro mette a rischio le tubature, costringendo l’amministrazione a riparazioni continue.
Ma a Mykolaiv le cose vanno comunque meglio di prima. Il governatore della regione, Vitalij Kim, ci spiega che i centri di distribuzione dell’acqua sono sempre di più per cui le file sono molto più brevi di qualche mese fa. E i tagli all’elettricità non sono così gravi come in altre zone dell’Ucraina. La città però è ancora lungi dall’essere tornata alla normalità. Dei 500 mila abitanti di prima della guerra, solo 200 mila sono rimasti nei mesi più difficili, e ancora adesso non si superano i 300 mila, quindi solo un terzo di chi è fuggito ha avuto la forza e il coraggio di ritornare. Anche perché ancora molti negozi sono chiusi, e soprattutto manca il lavoro. Tante grandi aziende hanno delocalizzato la propria produzione e tutto l’indotto derivante dai porti e dal traffico marittimo è morto. Prima della guerra la regione di Mykolaiv contava su diversi porti importanti per l’export ucraino, porti che sono adesso tutti fermi, neanche il corridoio del grano passa da questa regione. Quindi centinaia di migliaia di persone hanno perso il lavoro, e non hanno una seria prospettiva di ritrovarlo a breve-medio termine. Senza lavoro, con i negozi chiusi e senza acqua potabile in pochi finora hanno pensato valesse la pena tornare a vivere da queste parti, dove la memoria dei bombardamenti è ancora troppo viva e fa sentire i suoi effetti deleteri sulla vita sociale, economica e familiare.
L'aumento dell'uso di droghe
Chi è più fragile, con la guerra, si è trovato ancor più indifeso. Una mattina trascorsa nella sede di una Ong di Mykolaiv che aiuta tossicodipendenti e sieropositivi significa osservare da vicino una processione di uomini e donne spinti dalla guerra ancor più a fondo nel baratro in cui si trovavano. Helena e Svetlana sono i due angeli cui si rivolgono quotidianamente centinaia di disperati. La loro Ong, Unitus, distribuisce siringhe, preservativi, e organizza il sostegno psicologico ma da quando è iniziata la guerra è anche diventata un piccolo centro di smistamento di aiuti umanitari. Pannolini, cibo a lunga conservazione, saponi. Chi ha bisogno si rivolge a loro. Svetlana tratta chiunque arrivi con affetto, gli fa mettere una firma, gli da tutto quello che può. E lo manda via con un sorriso. Ci spiega che da quando è iniziata la guerra chi si drogava, per la paura e per lo stress, lo fa ancor di più. E i casi di chi viene a chiedere aiuto sono aumentati, anche per i tanti profughi dalla regione di Kherson che sono riparati qui a Mykolaiv. Un anziano signore con un passato di tossicodipendenza ci conferma che ancora in città si può trovare ogni tipo di droga, in questo la guerra non ha cambiato nulla. E che c’è più richiesta di prima per gli spacciatori. La responsabile dell’Ong, Helena, aggiunge che sono cambiate anche le motivazioni di chi chiede aiuto psicologico, ormai fornito da remoto e non più di persona. Tante mamme già in difficoltà adesso devono gestire tutto il giorno i bambini e i ragazzi che non vanno più a scuola e poi sono decine di migliaia le persone che hanno perso il lavoro per la fuga delle grandi aziende e la chiusura di tutti i porti della regione, gettando troppe famiglie nella povertà. Tutte queste persone, che già dovevano combattere con il demone della droga o del virus dell’Hiv, adesso hanno ancor più bisogno di parlare con qualcuno. Helena e Svetlana sono lì ad accoglierli e ad aiutarli.
Terza tappa
KHERSON
La scritta "Kherson" meta per i selfie
In pochi si fanno mancare un selfie davanti all’entrata di Kherson. La città, liberata a novembre, non è ancora tranquilla perché resta sotto il tiro quotidiano dell’artiglieria russa, appostata al di là del fiume Dnipro. Ma è diventata il simbolo delle vittorie ucraine. Quindi chi passa di qua si ferma, scende dalla macchina, e si fa una foto ricordo. In generale tutta la regione di Kherson, sotto occupazione russa per circa 8 mesi, fatica a riprendersi dallo shock vissuto. Nei tanti villaggi disseminati per le campagne si raccolgono storie di paura e di orrore sempre uguali, eppure ognuna a modo suo diversa. A Muzikivka, ad esempio, alle porte del capoluogo, gli abitanti hanno visto arrivare gli spaventosi ceceni di Kadyrov, e Anna, una gentile signora, ci racconta come nessuno degli abitanti volesse più uscire di casa. “Se eravamo costretti a uscire per necessità urgenti – ci spiega – cercavamo di andare in gruppi di almeno 2 o 3 persone in modo da non restare da soli con i russi”. Adesso, dopo mesi di terrore, davanti alla maggior parte delle case abitate sventola la bandiera ucraina. Il preside della scuola locale, Vasyl Slavych, ci porta in giro per le aule e i corridoi deserti del suo istituto. Sulla lavagna di una delle aule compare ancora la data del 23 febbraio, l’ultimo giorno in cui si è andati a scuola. Poi i ragazzi non sono più potuti tornare e anche adesso seguono solo corsi online, con tutti i limiti che si conoscono. In tutto il paese sono almeno 5 milioni i bambini e i giovani ucraini che stanno vedendo interrotta o dimezzata la propria istruzione. Si rischia di perdere la formazione di una intera generazione. Il preside ci racconta di esser estato convocato dagli occupanti russi, che gli hanno chiesto di riunire tutti i docenti e riaprire la scuola seguendo il curriculum russo: “Mi hanno detto che avrebbero riscritto la storia che studiamo, perché noi studiamo una versione sbagliata della storia e della letteratura”. Il preside ha preso tempo, ma pur di non riaprire la scuola in russo il giorno dopo è scappato e ha raggiunto il territorio sotto il controllo ucraino. Adesso che è tornato, il suo più grande rammarico è che i suoi ragazzi ancora non possano tornare a studiare in presenza. Vasyl però spera che almeno a settembre la scuola possa ricominciare. Purtroppo non è affatto sicuro.
Oleg e Nadia costretti a vendere
per strada
Nadia e Oleg avevano un bel negozio di motorini e ricambi auto, fornito di tutto. Adesso vendono per la strada, quasi fossero venditori ambulanti. Durante l’occupazione del loro villaggio, nella provincia di Kherson, i russi gli hanno rubato tutto quello che avevano. E’ stato un furto organizzato, i soldati sono arrivati con il camion per caricare più di 30 motorini e svuotando gli scaffali. Quando Oleh ha provato a interromperli chiedendogli di lasciargli qualcosa per sopravvivere gli hanno puntato il fucile al petto dicendogli di andarsene, non gli avrebbero mai permesso di stare meglio di loro. E hanno rubato tutto, come hanno fatto in tutti gli altri negozi di Velyka Olexrandrivka. Nadia ci racconta che in quei giorni non si poteva andare in giro, i russi erano ovunque e terrorizzavano la popolazione. Poi a un certo punto il loro negozio è stato anche bombardato, il retro e il magazzino non hanno più il tetto, e loro si sono ridotti a vendere per le scale all’entrata. Adesso fatturano il 5 per cento di quello che guadagnavano prima della guerra. E’ una condizione che riguarda quasi tutti in paese. Chiunque ha una macchina si fa chilometri per andare a prendere gli aiuti umanitari, perché anche chi era impiegato ha perso il lavoro, le scuole sono chiuse, e le aziende pure. Chi ha potuto se ne è andato. Il ponte sul fiume è stato bombardato ed è collassato, le due parti del paese sono adesso collegate solo a piedi. Non solo. Accanto al ponte c’era la centrale idroelettrica, ora è distrutta, il che vuol dire un ulteriore danno economico e meno posti di lavoro. Ripartire dopo l’occupazione russa in paesi come questo è davvero difficile. Le persone sono poche, il commercio scarseggia, come il lavoro, le strade sono rovinate dal passaggio dei cingolati dei carri armati. I campi da coltivare sono minati. E chi è rimasto, oltre a dover superare il ricordo di quei mesi di terrore, deve fronteggiare un altro nemico, la povertà.
L'infanzia rubata dei bambini
di Kherson
Bambini tra resti di missili e mine inesplose. Sono immagini che non si dovrebbero mai vedere. E che invece sono all’ordine del giorno nei villaggi occupati dai russi e poi liberati dagli ucraini nella provincia di Kherson, come in tutte le altre zone dell’Ucraina toccate dalla guerra. Dall’inizio dell’invasione russa l’Ucraina è diventata il paese del mondo più disseminato dalle mine, alcuni calcoli parlano del 40% del territorio da sminare. Squadre di sminatori sono al lavoro di continuo, ma il compito è proibitivo, anche perché presto arriverà la primavera e in un paese agricolo come l’Ucraina i contadini dovranno tornare nei campi a coltivare. Sono questi i danni di lungo corso che la guerra lascia e che restano per anni, anche quando sarà finita. Ad esempio, nei villaggi, i ragazzi razzolano in libertà, perché le scuole sono ormai chiuse da un anno. In molti casi sono diventate basi militari dei russi e quindi sono andate completamente distrutte, e spesso sono ancora da bonificare, piene di trappole, mine e ordigni inesplosi. Nei playground si è combattuto, ci sono ancora le voragini delle bombe, i sacchi di sabbia e le trincee scavate dai soldati. I genitori sono giustamente terrorizzati dalla prospettiva di quello che stanno vivendo questi bambini. La cassiera di un piccolo negozio di alimentari, che è anche una mamma, ce ne parla piangendo: “Non è giusto quello che è successo, non è normale che mio figlio, a 6 anni, sappia riconoscere i diversi tipi di missili e armi, e sappia la differenza tra mine anti-carro e anti-uomo. Lo abbiamo portato in città, ma non basta, quello che ha visto lo ha traumatizzato”.
Il racconto delle torture subite
da un poliziotto
Eva è nata in cantina, sotto occupazione russa e, letteralmente, sotto alle bombe. La sua nascita, il 12 maggio, è un mezzo miracolo. Ad assistere la mamma c’era solo il papà, appena liberato dai russi dopo giorni di prigionia e torture. Torture che hanno lasciato un segno profondo.
Olga, la mamma, incinta al nono mese, racconta il panico di dover partorire da sola: “Ho detto ai russi che dovevo partorire, loro avevano i medici militari ma mi hanno risposto che non potevano aiutarmi e che dovevo andare a Rostov in Russia. Non sapevamo come fare e non c’era connessione internet né telefonica. Abbiamo chiesto qualche informazione ai vicini”. La casa in cui la coppia aveva appena passato un Natale felice in attesa del parto è stata bombardata la prima volta il 1° di maggio. Sono state colpite e distrutte le stanze dei bambini. Per fortuna la coppia con il figlio più grande viveva già nel rifugio sotterraneo. Il 2 di maggio Olga e Serhiy decidono di scappare, restare era troppo pericoloso. Ma quando i soldati russi vedono che stanno caricando la macchina con tutte le valigie mandano i servizi segreti che prima interrogano Serhiy, il marito di Olga, e poi lo sequestrano e lo portano via. La sua colpa principale è quella di essere un poliziotto ucraino.
Quella sera, mentre Serhiy è in mano russa, i militari occupano la casa, si ubriacano e in piena notte iniziano a sparare dalle finestre. Olga ricorda quella notte con terrore, era con il figlio maggiore nel rifugio e non ha avuto il coraggio di uscire.
Ma in quelle ore Serhiy stava subendo le peggiori torture, con una violenza che fatica a raccontare. Tre giorni in cui è stato picchiato, preso a calci, legato, incappucciato. Gli hanno spaccato piatti in testa fino a farlo svenire, poi è iniziato l’interrogatorio, volevano sapere dove erano le armi della polizia ucraina: “Mi hanno messo i fili di metallo sulle dita – ci racconta - mi hanno chiesto se sapevo cosa fossero. Ho detto di no, pensavo fosse una macchina della verità. Poi hanno iniziato a torturarmi con le scosse elettriche. Ho urlato molto forte, era veramente doloroso. Come se la mia anima uscisse dal corpo a causa del dolore. Li pregavo di fermarsi, ma nessuno mi ascoltava”.
Dopo 3 giorni di questo trattamento lo trasferiscono in un’altra prigione. Poi, miracolosamente viene liberato, forse perché sanno che Olga è a casa da sola e deve partorire.
Quando arriva a casa è talmente tumefatto che il figlio si è terrorizzato, ha pianto tutta la notte senza riuscire a staccarsi dal papà.
Adesso Olga e Serhiy continuano ad abitare in cantina, la casa è distrutta e ci metteranno più di un anno per farla tornare come prima. Questo se riusciranno a trovare i soldi e la forza. Perché la famiglia è ancora sotto shock. Serhiy in particolare, dopo le torture, ha conseguenze psichiche permanenti, e deve farsi aiutare da uno psichiatra. In polizia non può ancora tornare. Olga è preoccupata, ci racconta che il marito urla la notte. Serhiy è ancora più perentorio: “Mi hanno rovinato la salute mentale, adesso soffro di attacchi di rabbia”. Non a caso le torture sono universalmente considerate un crimine di guerra.
Quarta tappa
KRYVYI RIH
Le miniere di Kryvyi Rih, città di Zelensky
Kryvyi Rih è la seconda città più lunga del mondo dopo Rio de Janeiro. E nella sua geografia sta la sua storia. Fondata dai cosacchi nel 1600, si è espansa a partire dal XIX secolo intorno a un giacimento di ferro che è lungo 100 km e largo dai 2 ai 7. Per questo la città è stretta e lunga, tutta costruita intorno alla strada principale, costellata di miniere e ciminiere. Qui si estrae l’85% del ferro ucraino, che fino al 24 febbraio andava quasi tutto verso Mariupol per essere fuso nelle acciaierie Azovstal. Adesso quella rotta non c’è più e Kryvyi Rih è diventata ormai la principale città mineraria del paese, anche grazie a multinazionali del settore come la Arcelormittal. Il 62% della forza lavoro della zona è assorbito dal settore minerario. Ma Kryvyi Rih è anche la città natale del presidente Zelensky che è nato e cresciuto in un anonimo palazzone sovietico soprannominato il formicaio. Qui fino all’invasione russa vivevano ancora i suoi genitori, poi trasferiti in una località segreta quando il presidente è diventato il target numero 1 dell’esercito russo. La casa di produzione fondata da Zelensky, quella che realizzava gli show che l’hanno reso famoso, si chiamava Kvartal 95, come il quartiere in cui abitava il presidente, e 95 era anche il numero della scuola da lui frequentata, ora in ristrutturazione. Ora che è assurto a eroe nazionale tutti i suoi concittadini sono fieri del presidente, anche se da quando è stato eletto è tornato molto poco in città. Kryvyi Rih è lontana dal fronte, da queste parti la guerra e i russi non sono arrivati, se non sotto forma di bombardamenti dal cielo. La vita scorre tranquilla in questa strana città d’altri tempi, dove la classe operaia è ancora maggioranza. Qui si parlano sia il russo che l’ucraino, ma l’appartenenza nazionale non è in dubbio. Kryvyi Rih è ucraina e non solo per il presidente. Lo è sempre stata fin dalle origini, perché una delle radici più profonde dell’identità ucraina è quella cosacca, l’unica forse che affonda nei secoli passati. E i cosacchi hanno fondato la città.
Quinta tappa
KIEV
Il sindaco Klychko: "Terrorismo a casa nostra"
Dopo un lungo viaggio nell’Ucraina meridionale e centrale, più toccata dalla guerra, arrivare a Kiev fa sentire in Europa. Nonostante la guerra sia ancora nel suo pieno, la capitale è riuscita a tornare alle vecchie abitudini. Solo con qualche accortezza in più. Bar e ristoranti sono aperti, ma solo fino al coprifuoco delle 23. I palazzi governativi sono ancora protetti da mezzi militati, molti negozi, benché aperti, proteggono ancora le proprie vetrine con lamine di compensato. La città, ci spiega il sindaco, Vitalii Klychko, porta però ancora i segni dell’assedio dello scorso marzo:
“Questa non è un’operazione speciale, è terrorismo a casa nostra. A Kiev, dove non c’è mai stato un fronte, circa 800 palazzi sono distrutti, 470 palazzi erano appartamenti dove vivevano i civili, più di 150 persone sono state uccise, tra cui 4 bambini, e questo solo nella capitale".
Per il resto, sparsi per la città si vedono ancora i cavalli di frisia, che però in Piazza Maidan sono adesso appoggiati sui marciapiedi e abbelliti da disegni e decorazioni. Disseminati per la città i manifesti in lode all’esercito sono ovunque e davanti al palazzo del comune un enorme striscione invita alla liberazione dei difensori di Mariupol, i combattenti delle acciaierie Azovstal. Più di 1.000 sono ancora prigionieri dei russi, ma per gli ucraini sono tutti eroi nazionali, hanno difeso la città fino all’ultimo e combattuto la battaglia più dura di questa guerra, con l’assedio più feroce.
Kiev quindi è si aperta ed europea come lo era prima dell’invasione, ma senza mai dimenticare il dramma che tutto il paese sta vivendo. Casomai qualcuno se ne dimenticasse, e non accade, ci sono i carri armati russi in mostra nella piazza del Monastero di San Michele a ricordare quanto siano dure le battaglie ad est e a sud. E chi può, dalla capitale come dal resto del paese, prova ad aiutare i soldati al fronte.