Dept. Q, l'intrigante poliziesco di Scott Frank

Prima di parlare di “Dept. Q”, la nuova serie di Netflix, ha senso parlare del suo creatore, Scott Frank. Frank è la mente che si cela dietro ad altri due grandi titoli della piattaforma streaming. Uno, passato quasi in sordina, è “Godless”; l’altro, che ha attirato l’attenzione del mondo intero e che ha rilanciato – in un certo senso – il gioco degli scacchi, è “The Queen’s Gambit” . Nel corso degli anni, Frank ha lavorato anche nel cinema, partecipando a produzioni di vario genere: da film più piccoli a veri e propri blockbuster. Il punto, però, non è questo. Il punto è la sua capacità di adattarsi e, soprattutto, di trovare uno spazio dove poter raccontare le storie che ha in mente. La trama di "Dept. Q" In televisione, di solito, ha sviluppato miniserie . Con “Dept. Q”, ispirato ai romanzi di Jussi Adler-Olsen, ha fatto un’eccezione. “Dept. Q” è un poliziesco, e la prima stagione si concentra su un unico caso. Ovviamente ci sono trame secondarie, che servono a sostenere la narrazione e a ispessirla. Ma l’indagine principale riguarda la sparizione di una donna, una magistrata, di cui anni prima si sono perse improvvisamente le tracce. Ecco, una delle caratteristiche di “Dept. Q” è che i suoi protagonisti si occupano quasi esclusivamente di vecchi casi irrisolti. Nasce come un tentativo per accontentare l’opinione pubblica, per dimostrare che la polizia tiene allo stesso modo a tutte le sue indagini; e si trasforma rapidamente in altro. In una possibilità concreta per fare giustizia. Regia e cast brillanti Il punto di forza di “Dept. Q” non è solo la visione di Frank o la sceneggiatura che ha sviluppato insieme a Chandni Lakhani. È anche la regia, che Frank ha curato con Elisa Amoruso , e il cast. Il protagonista, questo detective arrogante e sicuro di sé, brillantissimo e sempre pronto a dire la sua, è interpretato da Matthew Goode. Insieme a lui, ci sono Chloe Pirrie, Jamie Sives, Alexej Manvelov, Leah Byrne, Kelly Macdonald e Kate Dickie. “Dept. Q” è una serie inglese. O meglio: è una serie scozzese. È stata riadattata da Frank, che ha preferito cambiare ambientazione e approfittare di una ragione diversa, non inedita ma sicuramente più particolare dal punto di vista dello scenario, del Regno Unito. Una serie che vuole portare il pubblico alla conclusione del caso La storia procede piuttosto lentamente, proprio per calare lo spettatore nell’atmosfera e nella tensione che unisce i vari personaggi. Ma non solo. C’è un avanti e indietro costante tra passato e presente del racconto. In questo modo, possiamo vedere che cosa è successo prima, come i vari momenti all’interno della trama sono collegati tra di loro; e possiamo farci un’idea – nostra, personale – dei possibili colpevoli. “Dept. Q” dà tanti indizi, continuamente. Perché vuole permettere al pubblico di arrivare alla conclusione anche da solo, senza nessun grande colpo di scena. Ma è difficile, e questa difficoltà nello sciogliere i vari nodi è ciò che rende la storia così interessante. Il potenziale del tormentone Il personaggio di Goode, poi, è l’altro grande pilastro della serie. Carismatico, irascibile, pronto a dire quello che pensa. Scattoso, brillante, acuto. Vede cose che altri non vedono. E ha la fortuna di circondarsi di una squadra che, in qualche modo, riesce ad affiancarlo e a colmare le sue lacune. “Dept. Q” si aggiunge alla lista di serie non italiane arrivate in sordina nel nostro Paese e con il potenziale di diventare rapidamente un tormentone, qualcosa di cui tutti finiscono per parlare . È probabile, ma non sicuro, che dopo questa stagione ce ne saranno altre . Idee chiare, scrittura immediata e regia essenziale “Dept. Q” è la dimostrazione che per costruire un racconto di successo, cioè capace di funzionare a prescindere dalla lingua o dal Paese di provenienza degli spettatori, servono idee chiare, una scrittura immediata e una regia che non si perde in una ricercatezza stilistica fine a sé stessa, ma che sa concentrarsi esattamente su ciò che serve. Scott Frank, queste cose, le ha sempre fatte. O almeno: le ha sempre fatte con le serie tv. L’aver lavorato con grandi registi come Steven Soderbergh e Steven Spielberg gli ha permesso di avere la possibilità di imparare in prima persona, sulla sua pelle, che cosa vuol dire avere il controllo creativo totale di un progetto.

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