"Disclaimer", il potere delle storie e le scelte degli autori

Per molto tempo, e in parte è così ancora oggi, c’è stato un fraintendimento sulla serialità televisiva. Alcuni critici e alcuni addetti ai lavori hanno continuato a paragonarla alla letteratura. In parte per la lunghezza e per gli spazi di cui può godere il racconto, e in parte per la rinnovata centralità che viene riservata alla scrittura. Ultimamente, però, questa idea delle serie-libri è stata sostituita da un’altra idea, quella cioè delle serie-film. Molti autori, infatti, preferiscono descrivere le loro serie come “dei lunghi film”. L’ha fatto Marco Bellocchio con "Esterno notte", l’ha fatto Joe Wright con "M. Il figlio del secolo" e l’ha fatto anche Alfonso Cuarón, più recentemente, con la sua "Disclaimer", disponibile in streaming su Apple tv+. Ogni episodio, ha detto, è come un film. Probabilmente, questa convinzione nasce innanzitutto dal modo in cui il lavoro viene organizzato sul set – e spesso, quando si ha a che fare con un certo tipo di autori e con un certo tipo di storie, non è un lavoro molto differente rispetto a quello che c’è sui set dei film. Ma c’è pure un’altra considerazione che vale la pena di fare e che riguarda il peso sempre più importante che stanno avendo le immagini nella confezione di una serie tv. Se prima, e parliamo di diversi anni fa, tutto ciò che contava era la storia e il modo in cui veniva raccontata, oggi – vuoi per la diffusione di una tecnologia migliore, vuoi per l’aumento vertiginoso dei budget – si fa molta più attenzione ai colori, alla luce e alla composizione stessa dell’immagine. Lo spettatore deve essere coinvolto sotto ogni punto di vista. Nel caso specifico di "Disclaimer", arriviamo a una specie di equilibrio tra questi due aspetti: Cuarón non ha voluto cedere né sull’approfondimento dei personaggi e delle varie ambientazioni né, poi, sulla cura per le riprese e per le inquadrature. La fotografia, che è firmata dal Premio Oscar Emmanuel Lubezki e da Bruno Delbonnel, riesce a restituire perfettamente sia la tensione drammatica delle scene sia il lavoro certosino che è stato fatto in fase di scrittura. La storia che viene raccontata si divide in due periodi distinti; in realtà, volendo considerare la progressione di una delle trame verticali, in tre. Ci spostiamo dall’Italia al Regno Unito e viceversa, e lo facciamo più volte nel corso della serie. Passato e presente si alternano seguendo un andamento preciso e voluto, che permette al pubblico di cambiare e di adeguare la propria prospettiva. Per Variety, questa serie tv fallisce nel tentativo di costruire un thriller che ruota intorno a determinati temi come il femminismo. Probabilmente, però, "Disclaimer" è qualcosa di più di una rilettura – di nuovo, torniamo ai libri – di un particolare argomento. Cuarón voleva raccontare la sua storia facendo leva sulla percezione che abbiamo degli altri e sulla facilità con cui, oggi più di ieri, ci abbandoniamo a giudizi sommari e approssimativi. Crediamo di sapere, e non è così. In "Disclaimer" la protagonista – interpretata magnificamente da Cate Blanchett – viene accusata di aver lasciato morire un ragazzo anni e anni fa, quando era in Italia per un viaggio. E tutto, anche in questo caso, parte da un libro: l’immagine stessa della condensazione delle parole dette e degli spunti offerti viene racchiusa in un volume autopubblicato, piccolo, dalla copertina abbastanza piatta e brutta. Titolo: “The Perfect Stranger”. Chi sono i buoni, e chi sono i cattivi. E come si fa a stare dalla parte dei giusti. La protagonista è una giornalista di inchiesta, apprezzatissima per il suo lavoro. Eppure è proprio il suo essere esigente ed estremamente attenta che rischia di ritorcersi contro di lei. Cuarón gioca con l’erotismo delle intenzioni e degli sguardi e con i sottintesi contenuti nei silenzi; si diverte a far credere qualcosa che in realtà non è al proprio pubblico. E se ci riesce, e ci riesce, è solamente per la padronanza che ha del linguaggio seriale e per l’interpretazione che ne ha dato. Le serie tv non sono né la nuova letteratura né un’estensione concettuale del cinema; sono un’altra cosa. Una cosa che ha bisogno, innanzitutto, del suo spazio e dei suoi tempi. Non può essere dettata dagli algoritmi . Per un certo periodo, la serialità ha rappresentato un ponte tra due necessità: avere più tempo per far fronte all’assenza di soldi, e voler andare oltre i limiti e le costrizioni dell’industria cinematografica, all’epoca sommersa di uscite. Oggi, invece, che cos’è la serialità? "Disclaimer" di Cuarón ci dà una risposta, e quella risposta è: è esattamente ciò che voleva, e che vuole, essere. Con il giusto produttore e il giusto distributore, e con la giusta voglia di investire e – di conseguenza – di rischiare, il piccolo schermo può ancora regalare al proprio pubblico storie valide e interessanti. Dipende tutto, alla fine, da ciò che un determinato autore vuole fare . Un altro nome che viene alla mente provando a ragionare sulla dimensione e sull’influenza che la serialità continua ad avere in questo momento è quello di Steven Zaillian: vincitore del Premio Oscar per la migliore sceneggiatura non originale con "Schindler’s List" e nominato altre quattro volte per le sceneggiature di "Risvegli", "Gangs of New York", "L’arte di vincere" e "The Irishman". Su Netflix è disponibile la sua "Ripley" , e tempo fa aveva lavorato a un’altra serie tv amata dal grande pubblico, The Night Of. Zaillian, come Cuarón, ha un’idea precisa di ciò che vuole fare e di ciò che vuole ottenere con le sue storie; ed è pronto a insistere e a scontrarsi con i grossi studios per riuscirci . Il punto, insomma, è quanto peso oggi abbia l’aspetto creativo di una serie rispetto alle intenzioni dei distributori e dei produttori. "Disclaimer" di Cuarón prova, proprio come provano a fare un certo cinema e una certa letteratura, a invitare il proprio pubblico alla riflessione, a non dare nulla per scontato e a essere pronto, se è il caso, a fare un passo indietro. "Disclaimer" parla di noi e del potere che le ossessioni, alimentate dall’ambiente che ci circonda e da questa costante paura di essere messi sotto processo, hanno sulle nostre vite. Abbiamo il terrore di essere giudicati e di essere trovati mancanti. Cuarón, con questa serie, ci dice qualcosa di diverso. Qualcosa che, come succede sempre più raramente con la serialità contemporanea, vale la pena di ascoltare e di prendere in considerazione. Il piccolo schermo non è un riempitivo o, più banalmente, un semplice elettrodomestico; può rivelarsi una finestra su altri mondi – mondi che non conosciamo o che non abbiamo mai preso seriamente in considerazione – e sulle persone. Non letteratura e nemmeno cinema: la serialità, oggi, è semplicemente sé stessa.

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