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In Treatment 3: la recensione della settima settimana

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Foto di Antonello & Montesi

Porte aperte e porte chiuse. E' la fine, o è solo un nuovo inizio? La terza stagione di In Treatment, la stagione finale, è giunta al termine, dunque ecco l'ultima recensioni degli episodi a cura del Professor Roberto Goisis e dei membri della SPI, la Società Psicoanalitica Italiana: leggi il parere degli esperti

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di Elena Riva, psicoanalista S.P.I.

 

 

“La mia porta sarà sempre aperta per lei”: Adele si accomiata da Mari con la stessa formula che lui rivolge ai pazienti che unilateralmente decidono d’interrompere la terapia; “Può chiuderla dietro di me”, replica lui, congedandosi da lei e anche da noi telespettatori della puntata finale di quest’ultima serie.

 

Un addio che lascia l’amaro in bocca: Mari dubita della “verità” dei sentimenti e delle relazioni che si sviluppano entro la stanza d’analisi e intende abbandonare la professione che ha riempito la sua vita, svuotandola d’altri legami. Adele gli ha appena fatto notare l’intensità della sua partecipazione emotiva, talvolta dell’identificazione con i suoi pazienti, e la difficoltà a mettersi in gioco nelle relazioni “reali”. I confini fra ciò che accade entro e fuori la stanza d’analisi sono confusi come in un gioco di specchi. I pazienti del dott. Mari lo cercano per motivi diversi da quelli che dichiarano.

 

 

Rita, l’attrice angosciata di dimenticare la sua parte, vorrebbe piuttosto mettere in discussione la parte che le è stata assegnata nella vita, quella di bella, ma stupida, che non vale niente e si sente invisibile a dispetto dei successi. Coattivamente replica da sempre lo stesso copione, alla ricerca di conferme e riconoscimenti, fino a quando, apertamente sostenuta da Mari, decide di confrontarsi con la malattia terminale della sorella e assumersi la responsabilità di scelte dolorose, che la espongono alla disapprovazione della figlia. Consapevole dell’impegno richiesto da questa nuova parte, Rita si accomiata da Mari salutandolo e ringraziandolo anche a nome della sorella, senza che si rinnovi per questo l’ansia di non essere la figlia/paziente preferita.



Riccardo, il sacerdote che teme di aver perso la fede, non sembrava affatto rasserenato quando si è accomiatato per la prima volta da Mari e ringraziandolo per aver ritrovato la grazia. Un importante sintomo psicosomatico lo costringe, però, a tornare e confrontarsi col corpo e i bisogni affettivi e pulsionali negati. In terapia Riccardo riconosce la mancanza di autenticità della propria narrazione di sé e la funzione difensiva della vocazione religiosa rispetto al dolore di sentirsi un ostacolo per la carriera artistica della madre, cui è legato più da reciproca idealizzazione che da autentico affetto. Con questa nuova narrazione della propria storia, Riccardo si accomiata da Mari: il suo percorso non è certo concluso, ma è più consapevole e sereno, la sua gratitudine più autentica; Mari si dichiara disponibile a ri-accoglierlo, quando sarà pronto a proseguire il percorso.

 

Luca, come in genere fanno gli adolescenti, non esprime alcuna domanda di cura, sono gli adulti che lo circondano, preoccupati dal reiterarsi di agiti auto-distruttivi, a indirizzarlo al dott. Mari. Nella stanza d’analisi Luca cerca le proprie radici, recise dalla storia adottiva e necessarie a costruire la sua identità e il suo futuro. Nel coinvolgente “corpo a corpo” che ingaggia con Mari, Luca mette in scena il trauma dell’abbandono ed elabora i fantasmi di amore e odio, idealizzazione e persecuzione, che s’incontrano sulla strada fra Tebe e Corinto. Un ennesimo agito richiama in scena il padre adottivo, che gli svela l’intensità del suo amore per lui e gli chiede di scegliere fra sé e il dott. Mari, fra il padre reale e quello simbolico. Non di raro il genitore escluso dalla stanza d’analisi del figlio, entra in una sfida competitiva che mette a rischio il percorso terapeutico. Nonostante le spiegazioni e le proteste di Mari, Luca abbandona la terapia per riavere suo padre.

 

Bianca è la sola fra i pazienti di Mari a soffrire di un vero sintomo, l’attacco di panico che evoca la minaccia di un crollo del mondo interno. Al “suo dottore” Bianca chiede un farmaco che elimini il sintomo, e la proposta di cercarne l’origine e il significato nella sua storia infantile le pare insolita e inquietante; nonostante i tentativi di sottrarsi, entra in una dinamica transferale attraverso cui esprime il bisogno di una figura paterna protettiva e idealizzata, anche se questo la costringe al ruolo complementare di bambina inerme, incapace di sopravvivere senza la protezione di un uomo. Pur fra dubbi e incertezze, Mari tenta di ridefinire i confini fra realtà e fantasma, fra verità e bugie, restituendo Bianca a un dialogo più autentico con se stessa e il marito.

 

 

Le storie cliniche di quest’ultima serie di In Treatment parlano del dolore e della fatica di abbandonare un’immagine consolidata di sé e della propria storia per costruire una nuova narrazione. Tutti vorrebbero sottrarsi a questa fatica, evitarne gli snodi più dolorosi: i pazienti si alzano dal divano, accendono nervosamente una sigaretta, interrompono bruscamente la seduta. Avvertono, però, l’autenticità di questa ricerca, e puntualmente tornano per l’appuntamento successivo. Afflitti da crisi esistenziali piuttosto che da disturbi organizzati, i nuovi pazienti non sacralizzano il setting e non idealizzano il terapeuta, ma si rispecchiano in lui, ingaggiandolo in dinamiche transferali agite più che interpretate: Rita accusa Mari di preferire Patrizia come faceva sua madre; Luca interroga Mari sul rapporto con suo figlio e gli chiede di festeggiare insieme il suo compleanno. Seduta dopo seduta, la sintonizzazione emotiva s’infrange e poi ricostruisce grazie alla comprensione empatica di Mari, alla sua capacità di ascolto e di cura.

 

Negli “intermezzi” fra le sedute, un’abile sceneggiatura mostra il gioco di specchi fra la trama esistenziale di Giovanni e quella dei suoi pazienti: un appartamento solitario come quello di Rita, un figlio che, come Riccardo e lo stesso Giovanni, si fa carico del benessere del genitore; l’angosciosa attesa di una diagnosi infausta, alibi per una claustrofobica situazione di stallo. In ansia per la propria salute e ferito dalla perdita dei legami familiari, oltre che dal tradimento di Anna, incarnazione esemplare dell’onnipotenza terapeutica (analista, didatta, supervisore e ora anche scrittrice di successo...), anche Mari rivolge alla collega Adele delle richieste “di copertura”: prima chiede, anzi pretende, un farmaco contro l’insonnia, resistendo tenacemente al tentativo d’indagare le ragioni dell’insonnia; poi evoca, per legittimare il suo bisogno d’aiuto, le difficoltà del ruolo paterno. Come i suoi pazienti, anche Giovanni entra nel gioco del transfert, che diversamente da loro riconosce, maneggia e irride: “Ma lei ci crede ancora?”

 

Pur in difficoltà di fronte all’atteggiamento cinico e disilluso del collega più anziano, Adele “tiene la posizione”; Giovanni rimarca la sua inesperienza, la chiama principessa freudiana dagli occhi di ghiaccio, l’accusa di essere rigida e giudicante, ma la dinamica transferale inesorabilmente si dipana: lui esibisce la propria sofferenza, chiede complicità e invoca infrazioni di ruolo e di setting, lei imperturbabile interpreta questa dinamica, fino a quando la “realtà” della sua gravidanza scatena in lui una violenta reazione emotiva.

 

Le differenze di stile fra i due terapeuti sono evidenti, ma non si tratta di questioni “di Scuola” o di divergenze teoriche. Il dott. Mari conosce bene le regole che infrange e non vi si attiene per scelta, giusto o sbagliato che sia: accogliere a tarda sera Luca, scacciato dall’abitazione dei genitori naturali, può essere necessario o - come propone Adele - rappresentare una fuga dalla difficile relazione con il figlio reale nel più gratificante ruolo di padre simbolico; in ogni caso si tratta di una decisione consapevole, un’interpretazione agita, non un agito. Non si può rimproverare a Mari un difetto di formazione, ma una solitudine che non è solo personale, è anche professionale. L’isolamento dai colleghi e dall’Istituzione formativa è un fattore di rischio per ogni terapeuta, esposto dall’idealizzazione dei pazienti alle sollecitazioni di un’onnipotenza salvifica che causa errori e fallimenti. “L’amore è l’unica cosa che conta” sostiene Giovanni, ma un rapporto intimo come quello fra analista e paziente, senza le regole del setting, l’orientamento della teoria della tecnica e il confronto fra colleghi finisce per far dubitare anche dell’autenticità dei propri sentimenti.