Finanziarizzazione della musica: le canzoni sono diventate un asset?

Probabilmente l'avrete notato anche voi, ma da un po' di anni quando si parla di musica, canzoni e artisti si fa continuamente riferimento a numeri: stream, visualizzazioni, ma soprattutto incassi, cachet, ingaggi e fatturati vari. Ovviamente siamo i primi ad essere consapevoli che dietro le melodie delle canzoni e le esibizioni live c'è un'industria musicale che coinvolge decine di migliaia di persone e che deve crescere perennemente, tuttavia l'impressione è che il lato puramente artistico sia ormai più che marginale e la musica trattata come un vero e proprio asset finanziario. Proviamo ad approfondire questa che è molto più di una sensazione e che possiamo far iniziare da quando si è imposto lo streaming come principale forma di distribuzione e ascolto della musica, quindi è un processo iniziato circa 10 anni fa. Spotify e le altre piattaforme di streaming hanno trasformato la produzione, la distribuzione e il consumo di musica; ma, invece di promuovere l'espressione individuale, hanno spostato completamente l'attenzione sugli obiettivi finanziari. Quella musicale è un'industria che deve trarre profitto, parimenti a tutte le altre industrie culturali come cinema, editoria, televisioni; quello però che sta succedendo nella musica ha una sua peculiarità, perché il crescente ruolo della finanza nell'industria musicale, oltre a cambiare il modo in cui la musica viene distribuita, sta anche modificando radicalmente il modo in cui viene pensata e prodotta. Financialisation e Platformisation In pratica l'industria musicale odierna non si concentra più esclusivamente sulla vendita di album, biglietti o CD, bensì sulla generazione di attività finanziarie sotto forma di un numero crescente di ascolti e abbonamenti che promettono di creare flussi di reddito futuri. Quindi il cambiamento è guidato dalla "piattaformizzazione", cioè dal predominio dei servizi di streaming che plasmano il modo in cui la musica viene prodotta e consumata e la "finanziarizzazione" che danno priorità ai flussi di reddito futuri rispetto alla redditività immediata. In questo nuovo scenario, il valore non viene creato dalle vendite, ma dalla proprietà sui redditi futuri. Questo sta trasformando la musica in un prodotto di investimento e le playlist in strumenti altamente curati per estrarre valore. Spotify ha realizzato il suo primo profitto lo scorso febbraio, dopo 19 anni di attività. Ma il suo modello di business ruota attorno all'aspettativa di futuri incrementi di fatturato, ovvero sull'aumento degli ascolti, sia da abbonamenti a pagamento che gratuiti, quindi attraverso canoni di abbonamento mensili e l'aumento dei ricavi pubblicitari. Gli investitori valutano Spotify non per i suoi guadagni attuali, ma per la sua capacità di crescita. Per riuscirci, deve massimizzare ascolti e abbonamenti e "minimizzare l'attrito" ed è qui che entra in gioco la playlist. Le playlist standardizzate che plasmano i gusti La playlist ha in buona parte sostituito il ruolo centrale che in passato apparteneva alla radio: l'inserimento di una canzone nelle playlist più importanti può generare centinaia di migliaia di euro di entrate, mentre non essere inserita può significare essere totalmente ignorata. Per essere inserite in una playlist, le canzoni devono rispettare una serie di regole non scritte: durata breve, ritornelli immediati, ritmi prevedibili e texture sonore familiari. Le canzoni che si discostano troppo dagli standard rischiano di essere saltate e quindi di non generare profitto. Il risultato sono playlist ottimizzate per un'esperienza di ascolto compulsiva e selezionate per un consumo senza interruzioni e quindi, in un certo senso, le playlist stanno portando verso l'omogeneizzazione della musica. La testata The Conversation che ha una redazione formata da accademici e giornalisti, ha preso una delle playlist più popolari del genere Hip-Hop/R&b - che oggi in gran parte del mondo occidentale rappresenta il pop – e l'ha confrontata con quella retrospettiva di Apple Music dei più grandi successi hip-hop e R&B del 2002, cioè prima dell'avvento dello streaming. Prendendo quindi un campione di 50 canzoni, questo è stato analizzato in cinque categorie: forma e struttura, campionamento, ritmo, stile vocale e testi, e i risultati sono sorprendenti. Intanto la durata media di una traccia è scesa da quattro minuti e 19 secondi a tre minuti e tre secondi . Le canzoni contemporanee sono concentrate molto più su tempi e tonalità simili, con bassa varietà di suono e anche i campionamenti, che un tempo traevano ispirazione da generi e culture diverse, oggi usano loop molto simili spesso derivanti da piattaforme preconfezionate come Landr. Uniformità delle tracce più recenti anche per quanto riguarda ritmi e testi. Nel complesso, queste tendenze suggeriscono che la diversità sonora e stilistica un tempo elogiata nell'hip-hop è stata sostituita dalla compatibilità algoritmica. Mentre nel 2002 un gruppo eterogeneo di canzoni, tra cui Make It Clap di Busta Rhymes, Lose Yourself di Eminem o Work It di Missy Elliott, erano in cima alle classifiche hip-hop, oggi le canzoni su RapCaviar sono molto più omogenee. E sulla musica italiana tutto questo è ancora più evidente. Questo testimonia una trasformazione più ampia nel modo in cui i prodotti culturali vengono realizzati, valorizzati e diffusi: in particolare la musica e altre forme d'arte vengono sempre più prodotte all'interno di piattaforme progettate per la scalabilità. Pertanto, spesso la logica delle risorse sostituisce la libertà artistica e la prevedibilità prevale sull'originalità. In più la finanziarizzazione colpisce anche il mercato live dove i promoter concedono larghi anticipi agli artisti per fare concerti in grosse spazi che non riescono a riempire oltre che nell'acquisto di interi cataloghi di cantanti da parte di fondi di investimento, ma di questo ne parleremo in un altro articolo.

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Michele Boroni