Live Aid: quando la musica provò a cambiare il mondo

"And the lesson today is how to die". Bob Geldof lo cantava davanti a settantaduemila persone ammutolite a Wembley, mentre un miliardo e mezzo di telespettatori lo guardava alzare il pugno al cielo, immobile. Quel 13 luglio 1985 la musica non intratteneva: combatteva. Contro la fame in Etiopia, contro l’indifferenza, contro il cinismo di un’epoca. E lo faceva con le armi del rock, della solidarietà, dello spettacolo globale. Queen, David Bowie, Madonna, Bob Dylan, U2, Tina Turner, Led Zeppelin, Paul McCartney, Dire Straits: tutti sullo stesso palco – anzi due, sincronizzati tra Londra e Philadelphia – per suonare per oltre sedici ore consecutive. Era il Live Aid. Un’impresa tecnica, politica, umana, irripetibile. Molto più di un concerto, molto più di una maratona benefica: fu un gesto collettivo che riscrisse il ruolo pubblico del musicista e cambiò per sempre la percezione di cosa la musica potesse fare. A raccontare oggi quell’evento, nel suo contesto più ampio – sociale, economico, estetico – è Gabriele Medeot, autore del libro Live Aid. Il suono di un’era. Gli anni Ottanta e il sogno di un mondo migliore . Un saggio narrativo che parte dalla crisi del mondo occidentale e arriva al backstage di Wembley, tra riflessioni storiche e playlist emotive, con l’intento dichiarato di far sentire ancora quell’eco. Perché, come scrive Medeot, “quella musica non si è mai spenta”. Lo abbiamo intervistato per capire perché il Live Aid, a distanza di quarant’anni, continua a parlarci. Anche oggi. Forse soprattutto oggi. Cosa rese quel 13 luglio dell’85 più di un concerto, più di un gesto benefico? Cosa lo rese memorabile, ancora oggi? Lo scopo è la sua forza. La forza che quell’evento ha generato, innescata da due elementi fondamentali: da una parte l’obiettivo e la determinazione di Geldof, la sua forza di volontà; dall’altra, la tipologia di musica e di artisti coinvolti. I più importanti artisti della scena internazionale di quel momento: erano tutti lì. Quelli che mancavano, lo fecero solo perché se la sono persa o non riuscirono a entrare in qualche modo. Ma la stragrande maggioranza dei nomi più rilevanti degli anni ’80 – e non solo degli anni ’80, ma della musica fino a quel momento – c’era. E molte band si sono addirittura riformate apposta per esserci. Lei parla di Bob Geldof, che è l’uomo che ha reso possibile tutto questo, ma anche colui che, come dicevi, è stato quasi condannato a vivere con l’etichetta di “quello del Live Aid”. Quanto è stato sottovalutato? Quanto ha fatto bene, e quanto ha dovuto sacrificare della sua eredità musicale o di quello che avrebbe potuto fare extra Live Aid? Geldof ha sacrificato tantissimo, anche dal punto di vista della salute. Durante la preparazione del Live Aid non mangiava più, non si prendeva più cura di sé. Tutto è iniziato nell’ottobre del 1984, quando ha deciso di impegnarsi in un progetto dai contorni inizialmente indefiniti. All’inizio voleva solo “fare qualcosa, una canzone”. Poi quella canzone sono diventate due, su due lati dell’oceano, e infine un grande evento. E da quel momento non ha mai dubitato di riuscire a farlo. Ha sacrificato tutto, proprio mentre cercava di riportare i Boomtown Rats ai vertici delle classifiche, dove erano stati tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Ma quando ha visto quel documentario, tutto il resto ha perso importanza. Ha pensato: “non me ne frega niente dei contratti, della promozione del disco”, e se ne è dimenticato. Ha aspettato la fine del tour, il 4 marzo del 1985, per occuparsi personalmente della logistica. Qual è stata la miccia d’innesco, il momento clou? Se c’è un aneddoto in particolare che può essere considerato la vera genesi, quale sarebbe? La genesi del Live Aid non è chiarissima. Qualcuno dice che sia stato Boy George a dare la spinta. Altri parlano delle registrazioni di Do They Know It’s Christmas?, il brano del supergruppo Band Aid, nato per rispondere alla carestia in Etiopia. Sicuramente, la presenza di Geldof durante la registrazione di USA for Africa fu determinante per convincerlo a imbarcarsi in quest’avventura. Proprio il 4 marzo, Geldof chiama la segreteria di Wembley per chiedere come fare a ottenere la disponibilità dello stadio. È una storia clamorosa, il Live Aid. Ma chi, secondo lei, è stato il grande assente? Direi Bruce Springsteen, considerando che la data era stata anche spostata per venire incontro alle sue esigenze. Tra gli altri assenti metterei Cindy Lauper, che aveva detto che ci sarebbe stata a qualsiasi costo, e Stevie Wonder, che inizialmente aveva dato la sua disponibilità. La performance che più di tutte è entrata nell’immaginario mitologico del Live Aid è certamente quella dei Queen. Ma perché proprio quei 18 minuti sono rimasti cristallizzati nella memoria? Quei 18 minuti sono tatuati nella memoria collettiva dell’umanità, anche per motivi collaterali alla loro forza musicale. Per esempio, l’esibizione dei Queen fu l’unica trasmessa nello stadio con un volume più alto: ci fu un piccolo “magheggio” da parte degli assistenti. Ma il vero motivo dell’iconicità è che i Queen prepararono il set nei minimi dettagli. Non suonavano da tempo insieme ed erano agitatissimi, anche se avevano appena fatto il Rock in Rio davanti a 600.000 persone. E Freddie Mercury aveva già fatto alla band una rivelazione importante… Freddie Mercury aveva scoperto da poco di essere malato e lo aveva comunicato al resto della band. Ma il resto del mondo non lo sapeva. L’Aids, allora, era una condanna a morte. Quindi, non sapeva quanto tempo avrebbe avuto, se quella sarebbe stata l’ultima occasione per suonare davanti al più grande pubblico di sempre. È stata forse la performance più importante della loro carriera. Avevano messo insieme un repertorio di canzoni famose, tranne Hammer to Fall. L’emozione fu palpabile quando Mercury iniziò a suonare la melodia di Bohemian Rhapsody e 72.000 persone cantarono con lui, oltre al miliardo e mezzo collegato in TV. Crede che ci siano stati artisti sottovalutati al Live Aid? Non credo. Penso piuttosto che qualcuno abbia sfruttato il Live Aid a fini promozionali, come Madonna, che ne ha fatto un grande show di sé. Ma andrebbero ricordate anche esibizioni potenti come quella di David Bowie, che entrò con la sua eleganza maestosa e quel “buonasera a tutti quanti” scandito con voce baritonale, e poi rinunciò a parte del tempo per mandare un documentario che ricordasse al pubblico perché fossero lì. O Elvis Costello che non cantò un suo brano, ma All You Need Is Love dei Beatles. O la performance di Tina Turner con Mick Jagger. E poi c’è la televisione, che è stata fondamentale per consegnare quel giorno alla storia. Il Live Aid ha cambiato la percezione del musicista come figura pubblica o impegnata socialmente? Sì. Negli anni Sessanta c’era il cantautorato di Bob Dylan. Negli anni Settanta, la musica era rock devastante, autodistruttivo. Poi arrivano gli Ottanta, e per la prima volta il musicista si mette a disposizione degli altri in modo totalmente gratuito, regalando la propria arte e facendo sì che la musica diventi bandiera politica, morale, emotiva. Da quel momento, il musicista ha la possibilità di essere davvero sé stesso. Il suo libro racconta bene il contesto delle disuguaglianze, dell’apartheid, della fame in Africa. Quanto il Live Aid fu solo riflesso di tutto questo e quanto contribuì a dare una risposta concreta a quei fenomeni? Il Live Aid è nato per rispecchiare un momento sociale paradossale e anacronistico. Negli anni successivi abbiamo davvero creduto che con la musica si potesse cambiare il mondo. Pensa alla caduta del Muro di Berlino, agli Scorpions che, interpretando questo spirito, scrivono Wind of Change. Abbiamo creduto davvero di poter stare mano nella mano con il nostro nemico. Poi però siamo entrati in uno dei decenni più devastanti: la guerra nei Balcani, l’invasione dell’Iraq, del Kuwait, la Cecenia. Il sogno di un mondo migliore è andato in frantumi, e la musica lo ha raccontato dando vita al grunge, al new punk, al new rock. A un suono distorto, sporco, rovinato: il contraltare di quegli anni Ottanta in cui eravamo tutti belli e pettinati, tra una spallina e un synth. Il Live Aid però ha anche le sue ombre: parte del ricavato finito nelle mani sbagliate, polemiche sull’efficacia degli aiuti. Oggi come dobbiamo leggerlo, anche alla luce di questo? Lo rileggerei per quello che è stato. Siamo figli del tempo in cui viviamo. Con il senno di poi è ovvio che ci preoccuperemmo di più di come vengono usati i soldi, a chi vanno. Ma ci sarebbe sempre qualcuno pronto ad approfittarsene. Nel corso degli anni ci sono stati altri tentativi – come Farm Aid o Live 8 – ma nessuno ha avuto lo stesso impatto. È una questione di epoca, di protagonisti o di impatto culturale? Era un altro tempo. Il Live Aid era una novità assoluta, e già solo a livello tecnologico era considerato impossibile. All’inizio nessuno credeva davvero che Geldof potesse riuscirci. Poi la magia è semplicemente accaduta. La musica, in generale, racconta il tempo in cui nasce ed è plasmata dalle esigenze di chi lo vive. Ogni generazione ha la sua musica. E ogni musica non è mai stata capita da chi l’ha preceduta. Cosa resta del Live Aid, a distanza di quarant’anni? L’esempio morale, la determinazione e il senso di responsabilità. Se dovesse raccontare il Live Aid a chi non era nato nel 1985, quale canzone sceglierebbe come simbolo di quel giorno? Sceglierei "Money for Nothing" dei Dire Straits. È una scelta provocatoria: il concetto è che basta andare su MTV per diventare famoso. C’è un parallelismo fortissimo con oggi: basta arrivare sui social, nel modo giusto, per diventare noti. Oggi non c’è più la fama, ma la notorietà: concetti non così lontani. E dietro "Money for Nothing" non c’è nulla di casuale: è uno dei dischi più importanti del decennio, il primo in digitale, parla della guerra delle Falkland, e in copertina c’è – se togli la chitarra – l’immagine di Windows. È incredibile, considerando che Windows sarebbe arrivato da lì a poco. Un pezzo precursore dei tempi, dove Sting e i Dire Straits duettano. E i Dire Straits, che di lì a poco avrebbero tenuto un concerto proprio a Wembley, mantennero la promessa di partecipare al Live Aid per dare valore a quel senso di responsabilità di cui parlavamo. Con il Live Aid, il sogno di un mondo migliore si è almeno un po’ avverato? Un po’ sì. Mi piace pensare di sì. E voglio continuare a credere che le persone credano nella possibilità, nell’opportunità e nella responsabilità che comporta l’altruismo. Perché se sei responsabile e altruista, stai meglio. Vivi meglio. E alle critiche preferisci il fare. Una ricetta vincente, considerando che da quel Live Aid sono passati 40 anni e ancora oggi è memorabile, no?

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Giuditta Avellina